Papà, dove sei? L'importanza della figura paterna per i bambini

La figura paterna è punto di riferimento etico e di traenza sociale per ogni adolescente. Se viene meno tale riferimento il cammino dei figli si fa incerto provocando inquietudine e smarrimento. I consigli della psicopedagogista Evi Crotti per i lettori e i genitori de ilGiornale.it  

 
La figura paterna è punto di riferimento etico e di traenza sociale per ogni adolescente. Se viene meno tale riferimento, se la figura paterna si offusca o se il suo ruolo diventa fragile o manca del tutto, il cammino dei figli si fa incerto provocando in loro inquietudine e smarrimento. Questa sembra essere una condizione di questo periodo storico che ci deve rendere attenti osservatori della figura paterna indebolita o che sta perdendo quella forza virile, indispensabile per la costruzione dell'identità, della stima e della fiducia verso se stessi e verso la Vita. L'adolescente sente la necessità di affidarsi a lui, di poter conversare e di guardarlo in volto senza timore e senza riserve, per trovare sempre nuove rassicuranti conferme. Si tratta di un compito spesso arduo che spetta in prima persona al padre. La sua è una figura che rappresenta agli occhi del figlio l'universo maschile in cui dovrebbe predominare la norma, la legge e, soprattutto, l'indipendenza dai vincoli ricattatori e incestuosi, che stanno alla base della disarmonia nello sviluppo. Il padre è equiparabile a un rifugio sicuro.
Se la figura paterna è così necessaria per acquisire una propria identificazione, spinta indispensabile per l'entrata nel sociale, perché tanti ragazzi hanno un vero e proprio rifiuto nel relazionarsi con la figura paterna? Lo si nota in alcune situazioni di protesta sociale, a volte anche violenta, dove l'autorità andrebbe intesa come controfigura del padre e vissuta come avversario da combattere o da rifuggire; un rifiuto che sa tanto di richiesta esasperata dovuta alla sua mancanza.
La sicurezza che deriva da una figura paterna stabile e affidabile è assai importante per lo sviluppo relazionale del ragazzo. Infatti, è la sua la figura più adatta a fare da guida e da spalla per affrontare la realtà e confrontarsi con il mondo esterno, contribuendo così a formare nella sua mente un modello di riferimento diverso da quello materno primigenio.
La figura paterna rappresenta simbolicamente la legge e l’autorità, parola latina "auctoritas" che deriva dalla radice del verbo augeo, che significa "far crescere". Egli è la norma, la mano forte che protegge, la roccia che non crolla, il braccio forte che stringe e che ognuno di noi, sin dall'infanzia, ha portato dentro di sé e interiorizzandolo come modello. E’ una sorta di tavola delle leggi scolpita dentro di noi.
I disegni che andremo a visionare ci parlano dell'importanza della figura paterna. Tutti i disegni (guarda la gallery) riflettono un disagio e un'immaturità emotiva. Evidentemente Maria ha subito un'aggressione psicologica che l'ha resa fragile e reattiva insieme; una situazione che richiede al mondo adulto comprensione e attenzione dei suoi bisogni reali per evitare la destrutturazione della personalità.
Con l'aiuto della grafologia, interpretando correttamente l’evoluzione del disegno e della scrittura, potremo aiutare la madre e le insegnanti a trovare con pazienza una strada che permetta almeno di chetare la forte aggressività. La ragazza, infatti, è stata indirizzata verso la scherma e in questo modo ha trovato la possibilità da un lato d'investire l'eccesso di tensione e l'aggressività in un'attività fisica e dall'altro di scoprire motivazioni che le permettono di credere in un possibile miglioramento.
L'utilizzo dell'interpretazione su base psicodinamica del disegno nell'età evolutiva è di aiuto all'educatore, all'insegnante e al genitore per capire le vere ragioni dei disagi, purtroppo sempre più frequenti, che la famiglia può provocare.
La conoscenza è, come sostiene Albert Einstein, "il bene più prezioso che l'uomo possa avere".
Evi Crotti


Psicopedagogista, scrittrice e fondatrice della scuola di grafologia morettina di Milano che tuttora dirige

font:http://www.ilgiornale.it/news/cultura/pap-dove-sei-limportanza-figura-paterna-i-bambini-940397.html

Nicoletti: «Così comunica mio figlio autistico»

In un mondo diverso, Tommy sarebbe il miglior figlio possibile. A 15 anni appena compiuti, è già grande, grosso e instancabile, a patto di affidargli la missione giusta. «Sono sicuro che, con una lancia in mano, sarebbe un eccellente cacciatore», sostiene il papà, lo scrittore e giornalista Gianluca Nicoletti. Subito, però, si corregge: «Il guaio è che non viviamo più in una società tribale – dice –, tutto è diventato molto più complesso e questa complessità rappresenta un problema per un ragazzo autistico come lui». Chi segue Nicoletti nelle sue scorribande fra radio, blog e social network conosce già, almeno in parte, la storia di Tommy, il gigante gentile e silenzioso che ha rivoluzionato la vita di famiglia. Adesso in Una notte ho sognato che parlavi (Mondadori, pagine 180, euro 16,50) il racconto del padre è completo, diretto, senza reticenze. Il libro viene presentato oggi alle 17 a Roma presso la sede del Centro Nazionale delle Ricerche (piazzale Aldo Moro 7), da un gruppetto di relatori che comprende Stefano Vicari, neuropsichiatra infantile al Bambin Gesù, l’ingegnere biomedico Giovanni Pioggia, e Annalisa Minetti. Proprio lei, la cantante, l’atleta paralimpica. «L’ho voluta con noi per due motivi – spiega Nicoletti –. Il primo è che mentre Tommy nasceva io ero a Sanremo, per seguire il Festival da cui Annalisa uscì vincitrice. La seconda ragione è che anche lei ha un fratello autistico, ora trentenne, di cui continua a occuparsi con molta tenerezza».

Ma lei, Nicoletti, che cosa sapeva dell’autismo prima che la sindrome si manifestasse in Tommy?
«Molto poco, come la maggior parte delle persone. Avevo visto Rain Man e mi ero fatto l’idea che esistessero questi individui un po’ introversi, ma bravissimi in matematica. Non mi rendevo conto che esistessero ragazzi com’è oggi mio figlio, né di quanto fosse diffuso il problema. L’autismo, infatti, è la prima causa di handicap nel nostro Paese, eppure è una condizione che continua a essere vissuta in una solitudine terribile specie da parte dei genitori».
Dal libro però emerge l’immagine di una sorta di comunità.
«Il rischio è che la comunità ci sia, sì, ma che aggreghi persone isolate, per le quali la presenza di un autistico in casa rappresenta ancora motivo di vergogna. In questo senso, la prima alleanza che va rinsaldata è quella all’interno della coppia, la cui tenuta è messa duramente alla prova. Per non parlare dei fratelli, che spesso non sanno come spiegare la situazione agli amici. Con mia moglie e con l’altro nostro figlio, Filippo, abbiamo costruito un buon equilibrio, ma il fatto di entrare a contatto con la sofferenza di tante altre persone mi ha fatto capire che così non basta, non possiamo accontentarci di una soluzione che metta al riparo soltanto noi. Così è nata l’idea di Insettopia».
Prego?
«Zeta la formica, non so se ha presente. È il cartone animato che Tommy in assoluto predilige. Buona parte della trama è occupata dalla ricerca di questa terra promessa degli insetti, che in realtà è un angolo di prato ai limiti di Central Park. Ecco, anche i ragazzi autistici avrebbero bisogno della loro Insettopia: un luogo ordinato, ben organizzato e gestito da personale competente, nel quale convogliare le risorse, anche economiche, che al momento sono disperse in una serie di interventi effimeri e, in fin dei conti, di scarsissimo aiuto per le famiglie».
E si può fare?
«In alcune città, come Novara, si fa già. A Roma abbiamo costituito una piccola onlus, Sguardi Laterali, che ha iniziato a dialogare con le istituzioni. A dirla tutta, io avrei anche adocchiato un’area dismessa del Bioparco, che sarebbe perfetta per il progetto. Ma non ne faccio una questione personale. I genitori degli autistici non lavorano mai per se stessi. Al contrario lavorano per quando loro, i genitori, non ci saranno più. L’obiettivo, in un certo senso, è lo stesso di ogni altro padre, di ogni altra madre: fare in modo che il figlio raggiunga l’autonomia. Solo che l’autonomia di un autistico è una faccenda piuttosto delicata. Significa, per esempio, immaginare un futuro in cui tuo figlio, ormai adulto, non sia costretto a giocare con i cubetti colorati, ma possa impegnarsi in attività più adatte alla sua intelligenza».
Sempre di padri e figli si tratta, però.
«Sì, ne sono convinto. Per me essere il papà di Tommy significa essere semplicemente padre, in un rapporto ridotto all’essenziale, spogliato di tutte le sovrastrutture che, di solito, emergono nell’adolescenza. L’antagonismo o addirittura l’invidia. Qui tutto è più scarno, ma anche più profondo E questo, tra l’altro, vale anche per la comunicazione».
Il pregiudizio è che gli autistici non comunichino.
«Comunicano, invece, ma in maniera molto selettiva. Hanno un unico scopo, che è il loro benessere. Ogni interferenza, compreso il disagio di chi si trova accanto a loro, è motivo di ansia. Può darsi che la mia sia la deformazione di chi, da molti anni, si occupa dei fenomeni di comunicazione “totale”, dalla televisione a Internet, però a volte mi sembra che le persone come Tommy siano l’avanguardia di un mondo in cui, per contrastare lo stress generato dall’attuale sovrabbondanza di informazioni, si decida finalmente di scegliere, si chiuda qualche canale con l’esterno e ci si accontenti di quello che è davvero e sempre necessario».

Alessandro Zaccuri 
 
font:http://www.avvenire.it/Cultura/Pagine/nicoletti-cosi-comunica-mio-figlio-autistico.aspx

IL VERO VOLTO DELLA CHIESA NEL SORRISO DI UNA RAGAZZA. CHIARA E IL CONCLAVE

I mass media continuano a non capire la Chiesa, anche alla vigilia del prossimo Conclave. Per comprenderne il mistero bisognerebbe – per esempio – leggere un libro straordinario, “Solo l’amore resta” (Piemme), dove Chiara Amirante – 45 anni circa – racconta la sua storia. I giornali quasi non sanno chi sia Chiara, ma lo sanno benissimo migliaia di persone che per l’incontro con lei sono usciti dal buio e si sono convertiti (a me ricorda un po’ santa Caterina, un po’ Madre Teresa, ma lei respingerebbe con un sorriso e una battuta ironica il paragone).Anche il Papa conosce bene Chiara (l’ha nominata consultrice del Pontificio consiglio per la nuova evangelizzazione) e così pure molti importanti cardinali che la stimano davvero (il cardinale Ruini, da Vicario di Roma, ha aiutato e sostenuto la sua opera fin dall’inizio, quando lei era giovanissima).Invece i media no. Non capiscono cosa è la Chiesa, sebbene Benedetto XVI non si stanchi di indicare la presenza viva e misteriosa di Gesù Cristo.Ratzinger fin da cardinale continuava ad affermare che la Chiesa è “semper reformanda” (deve essere sempre rinnovata), ma sottolineando che è sempre stata rinnovata non dai riformatori (che hanno fatto disastri), ma dai santi.
LA STORIA INSEGNA
I media non lo capiscono. Se fossero esistiti – per esempio – nel XVI secolo, tv, internet e giornali avrebbero raccontato solo trame, corruttele, nepotismi, prostitute e altre cose simili. E avrebbero diagnosticato che la Chiesa stava morendo. Intervistando ogni giorno Lutero.In effetti nessuna istituzione umana sarebbe mai sopravvissuta a tanta “sporcizia”.Invece la Chiesa uscì da quel secolo con una rinnovata giovinezza, con uno slancio e una bellezza travolgente e attraversa i secoli. Perché non è una istituzione umana, ma letteralmente una “cosa dell’altro mondo”.Per capirlo i media nel XVI secolo avrebbero dovuto spostare i riflettori su una quantità immensa di santi che, proprio in quegli anni, il Signore fece sgorgare nel giardino della sua Chiesa.Ne cito solo alcuni (ma ognuno di loro è stato un poema e un ciclone): Carlo Borromeo, Filippo Neri, Francesco di Paola, Luigi Gonzaga, Francesco Saverio, Ignazio di Loyola, Giovanni della Croce, Giovanni d’Avila, Teresa d’Avila, Tommaso Moro, Juan Diego, John Fisher, Paolo Miki, Caterina de’ Ricci, Pietro Canisio, Stanislao Kostka, Edmund Campion.Per questo dico che oggi – per capire qualcosa del futuro della Chiesa – bisognerebbe andare a cercare e a raccontare storie come quella di Chiara Amirante.Il suo libro è un abisso di luce. Eppure racconta, con una prosa semplice, una storia dei nostri anni, di una ragazza che è ancora oggi una giovane donna, del tutto normale.
CHIARA
Un flash della sua storia. E’ una notte d’inverno del 1991, verso le tre. Una graziosa venticinquenne in motorino, a Roma, parte dalla stazione Termini e percorre un viale verso l’Appia quando viene avvicinata da un furgone che le taglia la strada per farla fermare.Le intenzioni dell’omaccione non lasciano dubbi e vengono dichiarate alla giovane dal finestrino. Lei, che è – come avrete capito – Chiara, accelera, scappa, cerca di darsi coraggio cantando, dice a se stessa (“ma no, non sono sola, il Signore è con me”).Poi, alla fine, lo guarda negli occhi e gli dice: “hai trovato la persona sbagliata, perché io ho consacrato la mia vita a Dio”.Sembrò che il tipaccio avesse avuto una mazzata in testa. Infatti si ferma più avanti con le mani alzate e – quasi intimorito – le dice: “Perdonami. Ma davvero tu hai consacrato la tua vita a Dio? Come è possibile? Una bella ragazza come te… Non ci posso davvero credere”.Ancor più sconvolto sarebbe stato se avesse saputo da dove veniva Chiara. Perché, così indifesa, o meglio, difesa dagli angeli, stava andando ogni notte nei sottopassaggi della stazione Termini che, in quegli anni, erano davvero gironi infernali, pericolosissimi per chiunque (tanto più per una ragazza sola).Ma come e perché Chiara si era lanciata in quell’avventura? Lo racconta nel suo libro e tutto sembra semplice e normale, ma in realtà i fatti che mette in fila sono sconvolgenti. Provo a enuclearli alla meglio.
COME DIO CHIAMA
Chiara cresce in una famiglia che vive nel movimento dei Focolari di Chiara Lubich. Fin dall’inizio attorno a lei – anche all’università di Roma – si raccolgono tanti giovani. Poco più che ventenne contrae una malattia gravissima agli occhi – l’uveite – che, oltre a dolori tremendi per quattro anni, secondo la diagnosi di tutti gli specialisti, la porterà presto alla cecità totale.Nonostante questa prova tremenda il cammino spirituale di Chiara si approfondisce. E perfino la sua gioia. Il suo sobrio racconto fa intuire esperienze che – più che sogni – hanno tutto l’aspetto di esperienze soprannaturali.Così, mentre matura in lei la vocazione ad andare da sola a cercare gli ultimi, i più derelitti e disperati (e il “popolo della notte” della Stazione Termini è il luogo che ha nel cuore), d’improvviso – dopo un pellegrinaggio al santuario del Divino Amore – le viene donata una guarigione improvvisa, totale e del tutto inspiegabile per i medici.Una guarigione che lei in fondo non aveva neanche chiesto, ma che interpreta come un segno: deve intraprendere subito la sua strada. E così diventa l’angelo degli inferni metropolitani. Si aggira col suo sorriso in luoghi pericolosissimi e sempre si sente protetta.Finché decide lei stessa di andare a vivere con questa povera gente, tra tossicodipendenti, malati di Aids, ragazze prostitute, derelitti al limite del suicidio, ex carcerati, gente che aveva frequentato sette sataniste, con tutte le conseguenze…I fatti che accadono attorno a Chiara sono sconvolgenti. Veramente si rende visibile la potenza dello Spirito Santo. Sono pagine tutte le leggere. Ma Chiara è chiamata ad andare avanti in quel cammino.
NUOVI ORIZZONTI
Medjugorje è un altro dei suoi luoghi del cuore. E lì s’illuminano i nuovi passi di Chiara. Nasce “Nuovi orizzonti”, l’ideale di una comunità dove si vive con semplicità e integralità il Vangelo.C’è la freschezza di ogni inizio, in tutti i tempi, dai primi amici di Gesù a Francesco d’Assisi a Ignazio di Loyola…. C’è l’abbandono totale al Signore e la scelta radicale, da parte di Chiara e dei suoi amici, dei voti di povertà, castità, obbedienza e – in seguito – di gioia.Questo è solo l’inizio dell’avventura di Chiara, ma è nell’origine che si coglie davvero l’essenza di qualunque cosa. Oggi mettere in file i numeri di ciò che è nato da Chiara fa impressione: 174 centri di accoglienza e di formazione, 152 Equipe di servizio, 5 Cittadelle Cielo in costruzione in diversi continenti, più di 250 mila “Cavalieri della luce” che – come dice Chiara – sono impegnati a portare dovunque, nel mondo, “la rivoluzione dell’amore”.Ma tutto questo – che forse è quello che più interesserebbe i media – in realtà è solo un sovrappiù rispetto all’essenziale. Che è l’intima unione spirituale di Chiara con Gesù, la sua toccante umanità, la sua semplicità, la sua gioia contagiosa (pur dentro sofferenze fisiche tuttora molto pesanti).I “segni” che accadono attorno a Chiara poi fanno sperimentare davvero la vicinanza del Signore.Quella “Chiesa gerarchica” che oggi spesso viene messa sulla graticola dai media fin dall’inizio ha accolto Chiara come una figlia amatissima e ha riconosciuto e valorizzato il suo carisma.Oggi incontrando Chiara, leggendo la sua storia, guardando il suo volto e i tanti giovani che accanto a lei hanno trovato il senso della vita, viene da concludere che i media non raccontano cosa è davvero la Chiesa. Non la capiscono.Forse non la vogliono capire.Già i primi apologeti cristiani, durante le persecuzioni, dicevano: “i cristiani chiedono solo questo, di essere conosciuti prima di essere condannati”. Anche oggi sembra che non si conoscano i cristiani. Che sono “una cosa dell’altro mondo” in questo mondo.

Antonio Socci
Da “Libero”, 26 febbraio 2013

font:http://www.antoniosocci.com/2013/02/il-vero-volto-della-chiesa-nel-sorriso-di-una-ragazza-chiara-e-il-conclave/

L'azzardo che fa morire.Uccide la madre per i soldi


 Vittima del videopoker è diventata carnefice della sua stessa madre. Per soddisfare il demone del gioco che si era impossessato di lei non ha esitato a uccidere una donna di 90 anni per rubare una catenina d’oro con cui pagare il vizio che le faceva trascorrere le ore davanti a una infernale macchinetta mangiasoldi. Maria Cristina Filippini è da ieri mattina rinchiusa nel carcere di Piacenza. C’è entrata dopo aver ripetuto al magistrato quello che già aveva confessato ai carabinieri: ha ucciso sua madre Giuliana Bocenti nella sua abitazione di Castel San Giovanni per sottrarle un piccolo monile che portava al collo da rivendere in un Compro Oro poco lontano da casa e con i soldi ricavati continuare a giocare. Una vicenda che getta, se ancora ce ne fosse bisogno, una luce sinistra sul gioco d’azzardo e sulle conseguenze che può avere sulle persone più fragili.Alla pista della rapina da parte di qualche sconosciuto o di una banda, i carabinieri del nucleo investigativo di Piacenza guidati dal capitano Rocco Papaleo, non avevano dato molto credito fin dall’inizio. Troppe le stranezze. A partire dalla porta d’ingresso che non presentava nessun segno di scasso per non parlare della camera da letto, l’unica stanza dell’appartamento di via Mameli ad essere messa a soqquadro come se l’assassino sapesse che negli altri locali non c’era nulla di valore. Infine l’omicidio stesso. Perché, si sono chiesti gli uomini del capitano Papaleo uccidere l’anziana? Di sicuro non poteva reagire e opporsi alla rapina. Il motivo più credibile era proprio quello di tapparle la bocca, di non permetterle di fare il nome di chi l’aveva rapinata.Per questo le indagini dal 4 febbraio scorso, non si erano dirette verso improbabili bande di rapinatori, ma avevano puntato sulla stretta cerchia della pensionata, parenti e badanti. E questo mentre la quarantottenne Maria Cristina - sposata con 3 figlie - spiegasse a chiunque avesse voglia di stare ad ascoltarla, quanto la madre - che l’aveva adottata quando aveva solo un anno - si fidasse di chiunque aprendo senza timore la porta di casa. Dichiarazioni rese anche alla televisione e che hanno contribuito non poco a metterla nei guai. La proprietaria del Compro Oro a cui aveva venduto la collanina (ricavato 280 euro), l’ha infatti riconosciuta e ha avvertito gli investigatori. I quali, da parte loro, avevano già raccolto una serie di testimonianze sempre più precise sul vizio della donna. Chi la conosceva, infatti, sapeva della sua ossessione per il gioco d’azzardo. Ore e ore passate davanti alle macchinette del videopoker consumando fino all’ultimo i soldi che aveva in tasca e, proprio per questo, sempre alla ricerca di nuovi spiccioli da bruciare sull’ara di un sogno impossibile.È stata così che venerdì pomeriggio la donna è stata chiamata in caserma a Piacenza e qui le è stata mostrata la catenina recuperata al Compro Oro. In un primo tempo ha cercato di negare poi, incalzata da contestazioni sempre più precise, ha ammesso la colpa. Prima con i militari poi anche davanti al pubblico ministero, anche se ha dato la colpa a non meglio chiariti dissidi che c’erano tra lei e l’anziana. Quasi si vergognasse di ammettere che era diventata assassina per una partita di poker in più.



Davide Parozzi 
 
font: http://www.avvenire.it/Cronaca/Pagine/uccidelamadrepc.aspx

FAMIGLIA Con i padri separati in cerca di speranza

È possibile coltivare la speranza anche quando tutto sembra perduto e l’unica voce è un grido di dolore che sale dal profondo per dare sfogo al delirio in cui si è precipitati? È dura, a volte terribilmente dura, ma è possibile. Lo dimostrano le storie di padri separati raccolte nel volume “Il delirio e la speranza” (Erga edizioni), che hanno in comune l’angoscia di uomini che, dopo la separazione, sono stati strappati dall’affetto dei figli e, in alcuni casi, hanno dovuto aspettare anni per poterli riabbracciare.
«Fa veramente impressione – scrive nell’introduzione Miriam Pastorino, curatrice del volume – vedere con quanta leggerezza e con quanta ostinazione certe madri costringano di fatto la prole nella condizione dell’orfano di padre. Questi racconti – prosegue – vogliono far riflettere sugli inutili dolori innescati da un malinteso senso di autoaffermazione della donna, solo parzialmente giustificato dalla sua storica condizione d’inferiorità». Alla fine, sottolinea la curatrice dell’opera, con il loro comportamento, queste madri diventano esse stesse «strumenti d’angoscia e infelicità per i loro figli».
Una deriva che, purtroppo, coinvolge un numero molto alto di minori, “contesi” da adulti che, troppo impegnati ad odiarsi (come ben testimoniano alcune delle storie raccontate nel libro), dimenticano di essere anche genitori. Una condizione che, invece, non termina con il venir meno del legame matrimoniale.
«L’unico modo per dare un senso di speranza anche a vicende dolorose, come la fine di un matrimonio, è tornare a volersi bene». Così ha fatto Emanuele Scotti, autore di una delle storie de “Il delirio e la speranza”, riuscito a riemergere, persino rafforzato, da un’esperienza di separazione. Genovese, 48 anni, Scotti è stato per anni vice-presidente dell’associazione Famiglie separate cristiane, realtà che si pone accanto ai separati per sostenerli nei momenti di massima crisi. Che non sono certo mancati nemmeno nella vicenda di Scotti, separato da undici anni, dopo un matrimonio durato sette e padre di un ragazzo oggi quindicenne.
«Per me è stata fondamentale la riscoperta della fede – racconta –. Nel dolore della separazione, mi ha aiutato a vedere l’altro non come un nemico da abbattere a tutti i costi, ma come una persona con cui cercare comunque un percorso di dialogo e confronto».
Un cammino che Scotti ha fondato su convinzioni religiose profonde ma che è percorribile anche da chi non è sostenuto dal dono della fede. «In fondo – ricorda il genovese – si tratta di atteggiamenti profondamente umani che aiutano a recuperare rapporti che si considerava perduti per sempre. Riuscire a trovare cinque minuti di dialogo accettabile è già un primo passo importante verso la normalizzazione di un rapporto; fa bene agli stessi ex-coniugi ma, soprattutto, ai loro figli».
Sempre l’esperienza di Scotti suggerisce che non servono grandi discorsi o gesti eclatanti. A volte basta riuscire a dire alla propria ex-moglie «Sei una brava mamma», per cominciare ad abbattere quel muro di incomunicabilità, se non di aperta conflittualità, che spesso separa chi vede frantumare il proprio progetto matrimoniale.
«Compiere questi gesti e dire queste parole – conclude Emanuele Scotti – non è solo un segno di rispetto per il proprio ex-coniuge, ma anche e soprattutto un grande gesto d’amore per i figli, il cui equilibrio è messo a dura prova dalla separazione dei genitori. Certo, in alcuni casi anche queste attenzioni non producono il risultato sperato e il riavvicinamento non avviene. Ma chi le mette in atto stia sicuro: questi gesti d’amore non andranno perduti».

Paolo Ferrarrio 
  font:http://www.avvenire.it/Cronaca/Pagine/con-i-padri-separati-in-cerca-di-speranza.aspx

La spalla del boia

Foto da Teheran. E precipitiamo nella notte, nel dolore, nella preghiera

 L’immagine della Associated Press è di quelle che attanagliano il cuore, e su cui ci si ferma, anche se non lo si vorrebbe, perché già al primo sguardo sai che ne trarrai dolore. Teheran, 21 gennaio, pubblica impiccagione di due giovani accusati di rapina. Dentro una notte senza luci, nera come se non dovesse più sorgere l’alba, solo il flash proietta la sua fredda luce. I condannati, che dimostrano vent’anni, vengono condotti alla forca, accompagnati ciascuno dal proprio boia col volto nascosto da un cappuccio. È un non-volto dunque, una maschera, l’ultima presenza accanto ai condannati.Uno dei prigionieri mostra all’obiettivo, sulla faccia da ragazzo, una smorfia di terrore e di angoscia. Sembra così giovane che, qualsiasi cosa abbia anche fatto, chi guarda si ribella: è ancora più intollerabile giustiziare un ragazzo, che avrebbe tutta la vita per cambiare. (Già però, dietro di lui, sulle spalle del boia si intravede, pronto, il cappio). 
Ma è l’altro condannato, che turba più profondamente. Nella disperazione di chi si vede davanti la morte, appoggia, inerme come un ragazzino, la testa sulla spalla del boia, a domandare, proprio a lui, conforto. E il boia mascherato, il non-volto, non si ritrae, anzi con una mano gli cinge la spalla. Il carnefice sembra avere pietà della vittima, e desiderare, forse, che il suo terribile compito gli sia tolto. C’è una umanità struggente, fra i due, nell’istante catturato dal fotografo; un ritrovarsi, sotto la più feroce legge, per un momento tuttavia fratelli, dentro a una legge anteriore e più grande. Ma tutto questo dura pochi secondi; un regime come quello iraniano non tollererebbe debolezze nei suoi boia. La pubblica conferma di un terrore eretto a sistema è del resto la ragione di quella esecuzione in piazza di due, forse, giovani banditi da strada.
 Intanto il fotografo si è voltato a riprendere il pubblico: una gran folla da stadio, e come allo stadio eccitata, i pugni alzati a domandare vendetta, le facce ansiose che "giustizia" sia fatta. L’eccitazione della folla gela il sangue, e, per contrasto, sottolinea l’istante di pietà del carnefice. Solo tre volti sono del tutto estranei a questa ebbrezza di sangue: quelli di tre donne. 
Dietro alle sbarre che separano la piazza dal patibolo, una ha il volto chino, nascosto nel pianto; una, giovane, si copre la faccia con le mani, per non vedere oltre; una terza, giovanissima, singhiozzante, nel suo strazio ha le fattezze delle donne ai piedi della Croce, nelle tele dei pittori antichi. Una accanto all’altra le tre – sorelle, spose? – testimoni di un antico femminile destino, volti di pietà là dove la violenza e il potere pretendono l’ultima parola. Il fotografo non può o non vuole cogliere l’istante della esecuzione. Solo ci mostra, in un ultimo scatto, notturno, immoto e appeso al cappio, il corpo del ragazzo che s’appoggia alla spalla del boia.
Tre foto che ammutoliscono. Ed è solo, pensi, uno squarcio aperto su quella grande parte di mondo che sfugge generalmente agli obiettivi; è solo una tessera nella ferocia che ogni giorno – noi non vedendo – opera in Siria, o in lontani Paesi africani. Nell’oggi, in questo istante, contemporanea a noi. Come stare davanti a questo male, da cristiani? Nel suo "Diario" Etty Hillesum, giovane ebrea olandese morta ad Auschwitz dopo una sbalorditiva maturazione interiore, scrisse, in una delle notti in cui i suoi amici lasciavano Amsterdam per i campi di raccolta: «Stanotte non si dovrebbe poter chiudere occhio. Si dovrebbe soltanto poter pregare». La notte più grande e atroce era, allora, sul popolo ebraico, sull’Europa, su noi. Ma quante notti, grandi o ignote, o ignorate, scorrono nell’oggi, in regimi di terrore, in genocidi e stragi, lontano dai nostri occhi? Quei tre scatti da Teheran, quei due ragazzi, la folla che urla e aspetta il sangue. Forse anche noi dovremmo, per tutte le notti che non sappiamo, ogni sera, per un momento non distratti, inginocchiarci e pregare.

Marina Corradi

font:http://www.avvenire.it/Commenti/Pagine/LA-SPALLA-DEL-BOIA.aspx

Addio Alice, la ragazza malata morta senza alcun rimpianto

Da sei anni sapeva di essere condannata. Così aveva stilato sul web la lista dei desideri: dall’incontro con i Take That a quello con le balene. Li ha soddisfatti tutti

Alice se n'è andata sabato sera, chiudendo sul nascere una vita brevissima,diciassette anni appena. Con questo nome si sarebbe meritata un suo paese delle meraviglie, come se lo meritano tutte le creature di un'età così fresca, anche quelle che portano un altro nome. Invece le è toccato qualcosa di ben diverso: un linfoma rarissimo e famigerato, detto di Hodgkin, tre casi su centomila e nessuna possibilità di uscirne. Quando le hanno comunicato la condanna aveva quattordici anni. A quel punto, Alice ha ritenuto di doversi costruire in proprio, accelerando un poco le procedure, stringendo di molto i tempi, il personalissimo paese delle meraviglie. Ognuno ha la sua bucket list, si dice dalle sue parti, in Inghilterra: la lista del secchio, questo secchio che possiamo riempire di qualunque cosa, ma che in un giorno qualunque saremo chiamati a gettare via con un calcio, per sempre.
All'improvviso, Alice si è ritrovata un secchio ristretto, poco capiente, fragilissimo. Ma non per questo si è rassegnata a lasciarlo vuoto. Anzi, ha fatto di tutto per stiparlo fino all'orlo, pressandoci dentro i desideri di una vita, per quanto breve, per quanto ingiusta…
Non mi resta molto tempo, vediamo di non scordare niente: prima di tutto i miei miti, vorrei conoscerli di persona, magari non proprio tutti, diciamo gli imperdibili, Paul McCartney per primo, poi Robbie Williams e i Take That. Che altro: ma sì, partecipare alla prom night, la famosa serata di gala organizzata dai licei americani, e magari dare vita a un'associazione benefica che aiuti in futuro le ragazze con il mio stesso destino. Sì, così può andare. Però mi voglio concedere anche una sfizio, perché non c'è vita degna senza neppure una fantasia bambina: mi piacerebbe un sacco vedere da vicino le balene, mentre nuotano nei loro mari….Sabato sera la piccola ingorda delle emozioni se n'è andata, ma non prima di aver comunicato a tutto il mondo, perché ormai tutto il mondo seguiva via Internet la sua bellissima corsa, le parole più attese: ce l'ho fatta, la mia lista del secchio è realizzata, ho esaudito tutti i sogni.
Alice ha chiuso gli occhi serena, mentre i suoi genitori e l'inseparabile sorella si premuravano di comunicarlo ai milioni di amici sparsi ovunque, fossero star della canzone o anonimi ragazzi di estremi continenti, in tanti impegnati a rendere possibili i desideri: «Il nostro angelo ha chiuso le ali. Siamo devastati. Da ora in poi la nostra vita non potrà più essere la stessa».Chi voglia versare qualche lacrima vera, un po' diversa da quelle che scorrono a gettone nella televisione delle carrambate e delle liti sentimentali, può farsi un giro sul blog «AlicePyne». Vi si leggono i passi più significativi della storia, nonché tanti dialoghi edificanti con gente di ogni dove. Soprattutto, vi si trova questo motto personale, lanciato come esclamazione assordante: «You only have one life: live it!», hai una sola vita, vivila!
È un grido più forte di ogni male, di ogni destino infame, più forte della stessa morte. È la conferma che una vita non si misura in anni, ma in densità. Non è indispensabile avere il secchio della Montalcini, capiente più di cent'anni, per lasciare un'impronta sul mondo. Ne basta uno minuscolo, purchè senza vuoti, riempito bene: di pensiero, di sogni, e dell'inguaribile voglia di vivere. Anche Alice, come la Montalcini, certamente ora riposa nel paradiso delle indimenticabili, grandi donne.

 font:http://www.ilgiornale.it/news/interni/874956.html

Daniela, la donna che visse due volte

Nel caldo salone arredato con gusto, il fuoco di legna crepita. Al centro Daniela, seduta sulla sedia a rotelle, appare immobile e assente, gli occhi ancora belli fissi nel vuoto. Prima di entrare ci eravamo ripromessi di non fare gaffe e di rivolgerci direttamente a lei («capisce tutto», sosteneva infatti il marito, Luigi Ferraro), ma ora l’impressione è di parlare da soli... «Ciao, Daniela, sono venuta ad assistere all’esperimento».
Da lei nessuna reazione, si direbbe, a parte un rapidissimo sfarfallio di ciglia, ma Luigi traduce sicuro: «Benvenuta, Lucia». Illusione? Subito le mostriamo un biglietto che per lei ci ha consegnato Max Tresoldi, il ragazzo milanese tornato da dieci anni di "stato vegetativo", da un mondo lontano e profondo come profonda può essere solo la coscienza di un uomo. Lo vedrà davvero?
L’esperimento intanto comincia: dalla Germania è venuta apposta la neuroscienziata Andrea Kübler. Proverà ad aprire un canale di comunicazione tra la coscienza nascosta di Daniela e noi che viviamo all’esterno, intorno al suo corpo silenzioso. Utopia?
L’attesa è palpabile, Luigi dà una mano, Leonardo, 17 anni, e Camilla, 7, guardano la mamma. La scienziata le applica al polso un tubicino che emette infrarossi: «Quando il raggio viene interrotto, sul monitor il cursore si ferma sulla lettera scelta», spiega a noi e a Daniela. Poi le fa la prima domanda: «Sei stanca?». Lievemente il pollice sinistro si alza e sbarra il passaggio al raggio, sul monitor la prima lettera, una P. Coincidenza?
Ci vogliono minuti e tanti movimenti di pollice – l’unica parte del corpo che Daniela muove – ma la risposta prende forma: «Per ammazzare me ci vuole una mazzata in testa!». E stavolta anche a noi è evidente che Daniela – viso immobile e occhi nel vuoto – in realtà sta ridendo.
UN PASSO INDIETRO
Tutto ha avuto inizio il 27 agosto del 2005, lo stesso giorno in cui Daniela Gazzano, 39 anni, ha dato alla luce Camilla. Cinque ore dopo il parto, un’imprevedibile emorragia cerebrale al tronco encefalico l’ha sprofondata in pochi istanti dalla gioia più intensa a quello che i neurologi definirono stato vegetativo. Nessun contatto col mondo esterno, non comprende nulla e nulla sente, assicuravano all’ospedale di Cuneo, dove rimase 40 giorni. Poi, come sempre in questi casi, la dimissione di quella paziente "senza speranza" e la drammatica ricerca da parte della famiglia di una struttura ad hoc. «In quei mesi mia moglie, considerata priva di ogni percezione, veniva trattata come un oggetto inanimato e non riceveva dagli infermieri nessuna delle attenzioni naturalmente riservate a un essere vivente e consapevole», racconta Luigi, che contro ogni logica e nozione scientifica continuava a nutrire la speranza: «Le parlavo sempre, cercavo in ogni modo di stimolarla. Speravo che in qualche profondità la sua coscienza mi ascoltasse, anche se non poteva rispondermi».
REGALO DI COMPLEANNO
Finché il primo marzo del 2006, giorno in cui Daniela compie gli anni, Luigi ha un’illuminazione. Se mi senti – le chiede quasi senza crederci – chiudi le palpebre quando dico la lettera giusta. E inizia a recitare l’alfabeto. Ci vuole qualche minuto, ma alla fine quegli occhi compongono una domanda, la prima dal giorno del coma: «Perché ho sempre tanto sonno?». «Non capivo più niente dalla gioia, Daniela c’era sempre stata ma per mesi aveva subìto il dramma di non poterci avvertire. Aveva ascoltato le diagnosi infauste, le rinunce dei medici, le parole di chi mi diceva: non sente niente». Una scoperta così incredibile che i neurologi la negano: secondo la scienza il suo cervello è disconnesso per sempre. Ma è ora che inizia il peggio, quando la lotta contro la malattia diventa guerra. Guerra contro una burocrazia che ammazza più del coma.
IN FUGA VERSO LA VITA
Se i medici non credono all’evidenza, non resta che "evadere". Così Luigi si rivolge di nascosto alla Casa dei Risvegli Luca De Nigris di Bologna e, grazie al direttore Fulvio De Nigris, porta sua moglie da uno specialista, che immediatamente capisce: Daniela è un caso di Locked-in, la "sindrome del chiavistello", è "chiusa" in un corpo apparentemente inanimato ma in realtà è lucidissima. L’odissea prosegue con battaglie estenuanti prima per ottenere il permesso di portarsela a casa, poi per ricevere la giusta assistenza: secondo l’Asl un’ora a settimana di fisioterapia è sufficiente e, se non fosse per i trenta volontari che tutti i giorni lavorano con Daniela, («la più bella sorpresa di questa storia»), non avrebbe mai ottenuto gli epocali passi avanti. Come quel pollice che, dopo anni di esercizi, da qualche mese si muove e oggi le ha permesso di interrompere il magico raggio di luce rossa.
INCONTRI RAVVICINATI
Anche Max Tresoldi, l’uomo "risvegliato" dopo dieci anni, fa parte del 40% di diagnosi errate, di quei falsi "stati vegetativi irreversibili" che in realtà erano sempre rimasti tra noi. Max e Daniela sono vissuti a lungo ai margini di un mondo che non li ascoltava, entrambi sono tornati da una vita parallela in cui loro vedevano noi e noi non captavamo i loro segnali di vita. Ha qualcosa di struggente il momento in cui, oggi, Daniela riceve quel suo biglietto: "Un caro saluto da Max, Buon Natale". Muovendo lentamente il pollice, traccia sul monitor la cosa più vicina a un miracolo: "CIAO MAX". Incontri ravvicinati del terzo tipo. E noi, muti, assistiamo al prodigio che sconfessa la scienza.

Lucia Bellaspiga 
 
font:http://www.avvenire.it/Vita/Pagine/la-mia-storia-raccontata-con-26-mila-battiti-di-ciglia.aspx

Si può ricavare acqua dalla nebbia prendendo esempio da un coleottero

La ricerca è stata condotta da scienziati britannici. È stato riprodotto il tessuto con cui l'insetto è in grado di bere acqua che il proprio corpo produce raccogliendo l'umidità e la condensa. La bottiglia hi-tech, che imita la forma del dorso della Stenocara gracilipes, è in grado di produrre quasi tre litri d'acqua ogni ora.

 Ottenere dell'acqua potabile in climi estremi dove di acqua non ce n'è. Un desiderio apparentemente banale che renderebbe possibile, o comunque meno disagevole, la vita dell'essere umano nelle realtà desertiche del pianeta. Alcuni ricercatori hanno scoperto che in fondo ci aveva già pensato la natura a rispondere a questa esigenza. Imitando il meccanismo con il quale un insetto della Namibia riesce a bere e conservare l'acqua prodotta dall'evaporazione della condensa, alcuni scienziati hanno sintetizzato un tessuto artificiale che consente di raccogliere l'acqua prodotta dall'umidità e dalla nebbia.
La Stenocara gracilipes è un coleottero del Naib, dove l'aria fredda e umida dell'Oceano portata verso il continente incontra l'aria calda del deserto formando una coltre di nebbia. L'umidità che si genera quando il sole va a dissipare questa nebbia si condensa sull'estremità dell'addome della Stenocara formando delle piccole gocce, che scivolando sul suo dorso altamente idrorepellente giungono per gravità alla bocca del coleottero dissetandolo. Questo stratagemma consente all'animale di arrivare a vivere anche otto o nove anni in zone del deserto dove cadono meno di 40 millimetri di pioggia ogni anno. Ed è proprio il complicato tessuto del dorso della Stenocara, dove si alterna una striatura di microaree idrorepellenti e non idrorepellenti, che ha ispirato diversi studi e ricerche scentifiche per produrre tessuti artificiali che ottimizzino la rapidità di condensazione del vapore acqueo.
La ricerca. Ma come può questo tessuto essere insieme impermeabile e non impermeabile? Nel novembre 2001, due ricercatori - Chris Lawrence, scienziato della società QinetiQ, e Andrew Parker, zoologo dell'università di Oxford - hanno chiarito il mistero: con un microscopio elettronico hanno ottenuto un'immagine dettagliata del tessuto che è risultato rivestito da uno strato super-idrofobico, fatto da lamelle di cera appiattite disposti come tegole di un tetto. La QinetiQ, azienda privata che fa ricerca per conto della Difesa britannica, ha brevettato il tessuto artificiale di una "Stenocara hi-tech", così da ricreare con polimeri che imitano la superficie del coleottero, una varietà di dispositivi per raccogliere vapore, condensabile in acqua potabile o per l'irrigazione agricola in regioni inospitali.
Oggi, più di dieci anni dopo, questo meccanismo è stato sfruttato da un team della Nbd Nano, una società britannica che crea tessuti sperimentali, che ha creato il prototipo di una bottiglia che si auto-riempie d'acqua, riuscendo a immagazzinare fino a tre litri di acqua ogni ora. La speciale bottiglia è un prodotto della cosiddetta Bio-imitazione e si ispira nella forma al guscio della Stenocara gracilipes.La bottiglia è in grado di accumulare acqua senza sosta, utilizzando una superficie su nano-scala che aumenta lo sfruttamento della condensazione dell'acqua. La superficie della bottiglia è coperta da materiali idrofili che attraggono l'acqua e materiali idrofobi e idrorepellenti.

 font:http://www.repubblica.it/scienze/2012/12/11/news/un_tessuto_artificiale_imita_un_coleottero_si_pu_ricavare_acqua_dalla_nebbia-47490786/

«Papà, raccontami il gol»

Se tutti i violenti degli stadi si fermassero per un attimo a leggere questa storia, forse capirebbero quante domeniche hanno gettato via, senza alcun senso. È la storia di un padre, Claudio, che tutte le domeniche accompagna suo figlio, Matteo, allo stadio di San Siro: perché il suo ragazzo è un non vedente dalla nascita. «Ecco Matteo, ora capitan Zanetti avanza sulla fascia destra si accentra e serve Milito che carica il tiro, e gol… Noooo… Fuori di poco». È la “telecronaca” tenera e accalorata di Claudio Mussi, il papà di Matteo, 16 anni, capelli lunghi tenuti su da un cerchietto sopra gli occhialini dalle lenti spesse, a immaginare il mondo. Da sei stagioni papà e figlio, dall’anello blu di San Siro, non perdono una gara casalinga della loro «pazza e amata Inter». Arrivano in auto da Alessandria: duecento chilometri tra andata e ritorno. Claudio di mestiere fa l’operaio per Trenitalia e sua moglie Silvia dopo mesi di disoccupazione ha ripreso da poco a lavorare, subagente in un’assicurazione. «Un sacrificio anche economico certo, ma Matteo è il nostro sole...», dicono. Gianfelice Facchetti ha voluto Claudio e Matteo alla premiazione del “Premio Giacinto Facchetti”, consegnato a capitan Javier Zanetti. Un nome che ricorre nelle loro “telecronache”.
Matteo con la sua inesauribile fantasia se li immagina uno per uno i suoi beniamini in campo, ma se gli chiedono chi è l’idolo, ammette cauto: «Mi piacciono tutti alla stessa maniera, quello che conta alla fine è che facciano vincere la squadra». Una risposta alla Stramaccioni, che ha appena abbracciato alla Pinetina, dove quando può fa capolino con l’inseparabile papà. «Però le sensazioni che proviamo nei 90 minuti a San Siro io e “Matte”, come lo chiamiamo a casa, faccio fatica a spiegarle a parole. Mentre gli descrivo le azioni è una sensazione meravigliosa sentire la sua mano stringere la mia, per tutta la partita. Quella mano che trema a seconda del crescere e il calare dell’intensità del tifo sugli spalti... Queste emozioni condivise rappresentano la mia vera vittoria».
Claudio ha i lucciconi agli occhi, Matteo sorride. Ma in casa Mussi non si vive di solo calcio. Matteo a sei anni aveva già gli sci ai piedi e con le immersioni da sub è sceso fino a 10 metri di profondità. E poi dopo la mattina al Liceo, c’è la musica. «Frequento una scuola di canto e di batteria e con degli amici ho messo su una band rock. Come ci chiamiamo? I “Name Less”, i senza nome...», sorride divertito. E il primo fan della boy band non poteva essere che Claudio. «Un paio di anni fa gli ho creato una web-radio (www.radiosalaprove.it) e un piccolo studio di registrazione. Ha funzionato. Alla sera Matteo si diverte a fare il dj e trasmette le sue canzoni preferite. È una finestra in più aperta sul mondo, perché la difficoltà maggiore per ragazzi non vedenti è proprio la socializzazione. Viviamo in una società individualista e spesso falsamente attenta alle disabilità». Cattivi pensieri che purtroppo sfiorano anche Silvia: «Fa rabbia l’indifferenza, specie quella a scuola della maggior parte dei professori. Sono preoccupati solo del profitto dei ragazzi. E non capiscono che è lo stare insieme agli altri che li aiuterà a crescere e ad integrarsi».
Problemi che non si risolvono, come una partita dell’Inter, con un gol di Milito . Ma l’amore dei suoi genitori, la musica, gli amici della band e le domeniche a San Siro, riempiono gli spazi purtroppo sempre bui della vita di Matteo. E con la sua storia, il calcio torna ad essere poesia. Una poesia d’amore, come i versi che da piccolo gli ha dedicato sua madre: «Quando al mattino sorridi nel sonno, il mio pensiero vola lontano e penso che tu ci veda come tutti gli altri bambini... Le tue manine così avide di conoscenza diventano ogni giorno più abili. Le tue manine preziose, i tuoi occhi».
Massimiliano Castellani 
 
font:http://www.avvenire.it/Sport/Pagine/pap%C3%A0-raccontami-il-gol.aspx

Uomo in stato vegetativo da 12 anni Comunica con i medici: "Non soffro"

Un caso clinico eccezionale al Brain and Mind Institute dell'University of Western Ontario, in Canada. Il paziente ha 39 anni e ha subito diverse lesioni dopo un incidente automobilistico. E' la prima volta che una persona, che si ritiene priva di coscienza, trasmette informazioni rilevanti sul suo stato di salute di VALERIA PINI

Scott Routley (Foto Bbc) 

"E' la prima volta che un paziente incapace di parlare e gravemente cerebroleso è stato in grado di dare risposte clinicamente rilevanti ai sanitari", spiegano i medici del Brain and Mind Institute dell'University of Western Ontario, 1 in Canada, intervistati dalla Bbc.
In coma da 12 anni. L'uomo protagonista di questo caso clinico eccezionale si chiama Routley Scott, ha 39 anni e aveva subito una grave lesione cerebrale 12 anni fa, in un incidente stradale. E' riuscito a rispondere ai medici mentre la sua attività cerebrale era controllata grazie a una risonanza magnetica. Di solito i pazienti vegetativi emergono dal coma in una condizione in cui hanno periodi di veglia apparente. Hanno gli occhi aperti, ma non hanno la percezione di se stessi o del mondo esterno. Nessuna delle valutazioni fisiche condotte su Scott aveva mostrato in lui segni di consapevolezza, o la capacità di comunicare. Ma secondo il neuroscienziato Adrian Owen, che ha guidato il team del Brain and Mind Institute, University of Western Ontario, Rutley non era in stato vegetativo.

La 'lettura' del cervello. L'esperimento è stato possibile grazie alla tecnica messa a punto dallo stesso Owen che da tre anni la sperimenta per 'leggere' la mente di persone in stato vegetativo. Tramite un'avanzata scansione del cervello con la risonanza magnetica funzionale, gli scienziati dell'università di Cambridge hanno dimostrato che i pazienti stavano pensando e potevano interagire con loro.

Il dialogo con Routley. Dopo aver pubblicato i risultati di questo primo studio sul New England Journal of Medicine 2nel 2010, Owen è andato in Canada per continuare la sua ricerca presso il Brain and Mind Institute of Western Ontario, dove ha esaminato il caso di Routley. Anche se i suoi occhi erano aperti e seguiva il normale ciclo sonno-veglia, tutti i test convenzionali, con stimoli visivi, uditivi, tattili, non producevano alcuna risposta. Con la sua tecnica, Owen ha verificato che Routley aveva una qualche consapevolezza mentre gli si davano delle istruzioni e si monitorava la sua attività cerebrale. I medici gli facevano delle domande e gli chiedevano di immaginare due scenari diversi, cioè giocare a tennis e camminare verso casa, a seconda che la risposta fosse 'Sì' o 'No'. Hanno così innescato uno 'schema' di attività in diverse aree del cervello che sono state mappate dalla risonanza, permettendo agli scienziati di comunicare con il paziente.

"Una mente conscia e pensante". "Scott è stato in grado di dimostrare che ha una mente conscia e pensante. Lo abbiamo analizzato più volte e il suo modello di attività cerebrale mostra che sta chiaramente scegliendo di rispondere alle nostre domande. Crediamo che sappia chi è e dove si trova", spiega Owen, soprannominato anche il 'lettore della mente' per i suoi studi sui pazienti con lesioni cerebrali. "Da anni abbiamo lottato per capire cosa provassero i malati. In futuro potremmo porre loro domande per riuscire a migliorare la loro qualità di vita. Potrebbero essere cose semplici che riguardino, ad esempio, la frequenza in cui nutrirli o lavarli", ha aggiunto Owen.

"Sono rimasto molto colpito quando ho visto che Scott stava dando risposte precise", ha detto il professor  Bryan Young dell'University Hospital, di Londra, che da dieci anni segue Routley.

font:http://www.repubblica.it/scienze/2012/11/13/news/un_uomo_in_stato_vegetativo_da_12_anni_parla_con_i_medici_non_soffro-46540804/ 

Paralizzato da ictus, si riprende imitando figlioletta

Completamente paralizzato dopo un ictus, riprende a camminare a parlare imitando suoni e movimenti di sua figlia nata da poco: è la storia a lieto fine di Mark Ellis, 24enne inglese, colpito dalla malattia a due settimane dalla nascita della sua Lola-Rose, che l'ha salvato. Lo riporta il The Week Magazine online. Poco dopo la nascita della piccola, Mark iniziò a soffrire di emicranie finché non fu colpito da ictus. I dottori lo tennero in coma indotto per un po', senza dare alcuna speranza alla moglie Amy e quando si svegliò dissero che comunque sarebbe rimasto per sempre prigioniero della sindrome 'locked-in', ovvero sarebbe stato prigioniero del suo corpo. Mark era cosciente, ma riusciva a muovere solo gli occhi, con cui esprimeva i 'si'' e i 'no'. Ma il contatto con la sua bambina che nel frattempo aveva quasi un anno, lo ha 'miracolato', inducendolo ad una fisioterapia riabilitativa di estrema efficacia: non appena la piccola ha mosso i primi passi, anche il suo papà è riuscito, imitando i suoi movimenti, e lo stesso con le parole, venute dopo settimane passate ad imitare i suoni di Lola-Rose. "Ora usano giocattoli, libri, giochi e iPad insieme, per imparare come comunicare con il mondo", ha detto la moglie

font:http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/mondo/2012/07/22/Paralizzato-ictus-riprende-imitando-figlioletta-_7221946.html

Jason Becker, il genio della chitarra prigioniero della Sla

Quando nel 1988 i medici gli diagnosticarono la Sclerosi laterale amiotrofica, Jason Becker aveva solo 19 anni ma era già una stella fra gli “addetti ai lavoro”, considerato uno dei più talentuosi chitarristi rock sulla scena.
Nato a Richmond, in California, Jason era stato scoperto da un talent scout di giovani fenomeni della sei corde, Mike Varney. A 16 anni aveva formato un duo insieme a un  chitarrista di 7 anni più grande di lui e che avrebbe fatto strada, Marty Friedman. I due, sotto la sigla “Cacophony”, incisero nel 1987 e nel 1988 un paio di album strumentali che stupirono per la qualità e la giovanissima età degli autori. Nel 1988 Jason destò impressione anche con un album solista, “Perpetual Burn”, un piccolo capolavoro di virtuosismo e metal neo-classico che gli valse un ingaggio da parte David Lee Roth, ex cantante dei Van Halen, per il suo nuovo tour. Un impegno che Jason non riuscì a portare a termine a causa di uno strano indolenzimento delle mani. Dopo una serie di esami arrivò la diagnosi fatale: morbo di Lou Gehrig e un’aspettativa di vita, secondo i medici, di pochi anni.
Ritiratosi dalle scene e persa lentamente la mobilità, Jason Becker non è rimasto solo una leggenda per gli appassionati di chitarra elettrica, ma è rimasto strenuamente legato alla musica. Grazie alle apparecchiature acquistate con il contributo economico degli amici e dei fan, ha continuato a comporre attraverso il movimento degli occhi e delle palpebre. Le sue condizioni di salute si sono stabilizzate alla fine degli anni ’90 e 22 anni dopo la scoperta della malattia continua a vivere, accudito dai genitori e dalla sorella.
“Not dead yet”, non ancora morto, è il toccante film-documentario sulla sua vita uscito in America all’inizio dell’anno e che in Italia viene presentato in anteprima stasera (11 giugno), al Biografilm di Bologna (www.biografilm.it)
Andrea Galli 
 
font:http://www.avvenire.it/video/Pagine/Becker-chitarrista-malato-di-sla.aspx

Così gli sceicchi cancellano i simboli cristiani

«Toglieteci tutto, ma non la croce cristiana». È questo l’appello accorato che da Madrid sta girando per l’Europa del pallone, da tempo divenuta la nuova terra di conquista degli sceicchi islamici. D’accordo che per il vil denaro il mercenariato del calcio è disposto a tutto, ma addirittura rinunciare alla storia e alla tradizione, in questo caso “sacra”, del proprio simbolo, questo è inaccettabile. Eppure il club più noto e amato del pianeta calcio, il Real Madrid, alla faccia dei suoi 150 milioni di tifosi sparsi per il mondo (dei quali in Spagna il 30% si dichiarano «cattolici praticanti») lo ha fatto.
Via quella croce dalla corona concessa dalla Chiesa in via del tutto straordinaria al re Alfonso XIII - nel 1920 - per non offendere la religione dei “fratelli musulmani”, entrati a suon di petrodollari nella stanza dei bottoni del club del patron Florentino Perez. Come non accontentare lo sceicco che ha già promesso alle “Merengues” aiuti sostanziosi da qui all’eternità e la possibilità immediata di far partire un progetto di una seconda “Casa Blanca” (modernissimo centro sportivo) nell’isola di Ras Al Khaimah, una delle “sette sorelle” che formano gli Emirati Arabi.
E gli acerrimi nemici del Real, il Barcellona, che per un secolo (112 anni per l’esattezza) hanno tenuto alto il vessillo dell’indipendenza catalana, persino dagli sponsor più opulenti, ma adesso nell’era del “calcioshowbiz” sventolano bandiera bianca. Nella finale del torneo di Abu Dhabi, Messi e compagni sono scesi in campo con una maglia alla quale era stata tassativamente vietata l’esposizione dello stemma classico del Barça, quello con la croce di Sant Jordi. Via anche qui il simbolo cattolico, divieto di farsi anche il segno della croce o di pregare in campo e massima fierezza invece nell’esporre la sponsorizzazione, “Qatar Foundation”, sulla gloriosa casacca blaugrana. Il presidente Laporta per fortuna non ha archiviato lo sponsor solidale, Unicef, al quale il Barcellona continua a dare il suo generoso contributo, ma come poteva rinunciare ai 166 milioni che nel prossimo quinquennio sborserà la holding a cui fa capo il munifico Tamin bin Hamad Al-Thani? Il principe ereditario e futuro Re del Qatar, classe 1980, è partito da un pezzo alla conquista del mondo del pallone.
L’obiettivo finale, peraltro già raggiunto: i Mondiali di calcio del Qatar, nel 2022. «Il Mondiale impossibile», secondo i benpensanti, smentiti e reso reale dagli appoggi del famelico e venalissimo presidente della Fifa, Joseph Blatter che si è inginocchiato dinanzi allo stemma dell’impero degli Al-Thani. Un tesoro da 40 miliardi di euro, dei quali una “piccola parte”, peraltro molto sostanziosa, finisce nella “Qatar Sport Investiments”.
Il giocattolino di Tamin, rampollo di una famiglia a capo di un Paese, indipendente dall’Inghilterra dal 1971, dove risiedono stabilmente appena 1,7 milioni di abitanti, ma che possiede un tasso di crescita che nel 2010 si attestava intorno a un magnifico più 16,3%. Numeri che fanno capire come sia facile per la famiglia Al-Thani scalare e convertire il Barcellona che dopo la Febbre a 90° contrae pericolosamente quella dell’oro.
Ancora più semplice per i discendenti dei mori regalarsi, sempre nella Liga spagnola, il Malaga, e poi puntare in Francia e mettere le mani sul Paris Saint Germain, con la benedizione dell’amico, l’ex Presidente Sarkozy e un assegnuccio da 70 milioni di euro, giusto per controllare almeno il 70% del club. Il direttore generale del PSG, il cattolicissimo brasiliano Leonardo, con un contratto da 5 milioni a stagione per i prossimi quattro anni, non ha esitato a mettersi a completa disposizione del principe del Qatar che per allenatore ha ingaggiato anche il nostro Carlo Ancelotti, rendendolo, tra i malumori dell’opinione pubblica transalpina, l’uomo dallo stipendio più alto di Francia: 6 milioni di euro. Ma lo sponsor sulla maglia del PSG, “Fly Emirates”, lo forniscono gentilmente i fratelli musulmani di Dubai che fino al 2015 sono legati anche al Milan con un contratto da 60 milioni di euro. Finora il “diavolo” simbolo della società del presidente Silvio Berlusconi, a quelli di Dubai pare non dia fastidio, ma non è escluso che prima o poi possano emettere una “fatwa”, come quella che due anni fa colpì i rossoneri in Malesia. Due imam, feroci quanto le tigri di Mompracen bandirono dai campetti malesi la maglia del Milan: «Perchè un musulmano - disse il leader religioso Nooh Gadot - non deve venerare simboli di altre religioni o il diavolo». I signori di Dubai sponsorizzano anche l’Amburgo nella Bundesliga e per 90 milioni di euro hanno acquistato il club spagnolo del Getafe.
Ma il capolavoro del gruppo è stato la conquista del title-sponsor dello stadio dell’Arsenal che per i prossimi 15 anni (per un totale 100 milioni di euro) recherà l’intitolazione “Emirates Airlaines”. Volano le azioni e gli investimenti in nome di Allah anche da Abu Dhabi. Dalla sua regale dimora, lo sceicco Mansour ha deciso di spendere e spandere per rendere il Manchester City una potenza mondiale del football. E finalmente i 250milioni di sterline (23 dei quali serviti per acquistare Mario Balotelli), dopo 44 anni di attesa, hanno fruttato la tanta agognata conquista della Premier da parte del City allenato da Roberto Mancini. Dal Bahrain sono partiti con una cifra e un profilo più basso, accontendadosi di rilevare in Spagna il piccolo “Real”, quello del Racing Santander. Per ora i magnati della Western Gulf preferiscono i motori (Dal 2004 organizzano il GP di Formula 1 del Bahrain) come dimostra il 30% delle loro azioni nella McLaren. Ma dove c’è sport, ormai, lì c’è la casa del “sultano”. Maragià che arrivano con le loro truppe cammellate per stipulare contratti faraonici, ma imponendo sempre il proprio credo che non tiene mai conto della storia e tanto meno della tradizione religiosa del Vecchio Continente, così in crisi da accettare di tutto. Tanto è lo sceicco che paga.
Massimiliano Castellani 
font: http://www.avvenire.it/Sport/Pagine/Cosi-gli-sceicchi-cancellano-i-simboli-cristiani.aspx

I fantastici 400 metri di Matt: la lezione di un piccolo disabile

Il suo cognome non è noto, ma la sua impresa, immortalata in un filmato, sta facendo il giro del mondo. Affetto da paralisi spastica cerebrale, il bambino ha gravissime difficoltà motorie. ma partecipa alla gara di corsa. Arriva ultimo, ma è un trionfo di umanità

di PAOLO GALLORI
IO ESISTO. E sono come voi. Forse non vi batterò mai. Ma, in fondo, esiste un essere umano sicuro di poter affermare che su questa terra non esista nessuno in grado di superarlo in qualsiasi prova d'abilità, intelligenza o coraggio? Forse era questo il mantra che il piccolo Matt si ripeteva mentre arrancava e osservava i suoi compagni di scuola corrergli davanti e sparire già dopo la prima curva. Ma lui non se curava. Lui era in gara con la vita. E grazie a lui, la vita ha vinto.

GUARDA IL VIDEO

Matt, cognome sconosciuto, frequenta le scuole elementari "Colonial Hills" di Worthington (Ohio). Ha un bellissimo viso, tratti sottili e gentili. E' completamente calvo, ma non ci fa caso nessuno. Perché Matt è affetto da una grave forma di paralisi spastica cerebrale. In pratica, Matt ha enormi difficoltà motorie, perché non riesce a controllare e comandare gli arti. Per questo, chi lo osserva per la prima volta non fissa i suoi occhi, non nota quella bella testolina lucida. L'attenzione è tutta per gli sforzi che fa nel semplice camminare, caracollando passo dopo passo come un soldatino di latta.

Matt è abituato a quegli sguardi, la curiosità e la pietà degli altri non gli interessano. Perché lui crede in se stesso e nelle sue gambe. Ci crede al punto da iscriversi alla gara dei quattrocento metri piani ai giochi della gioventù del suo istituto. Eccolo,
sulla linea di partenza, assieme a un pugno di avversari. Davanti a sé, Matt ha una pista nell'erba lunga 200 metri, da correre a perdifiato per due volte. Un insegnante nel ruolo di starter avverte i concorrenti: "Vi dirò semplicemente GO!".
"Go, vai! In fondo è facile, devo semplicemente scattare e lasciar andare le gambe". L'insegnante dà il via alla competizione, pochi metri e Matt già mangia la polvere sollevata dalle scarpette dei coetanei. Da quel momento, in pista restano solo lui e la sua sfida. Le ginocchia di cemento, cosce e polpacci, sottilissimi, piegati rigidamente a elle, è come se Matt stia correndo su piccoli trampoli, occhi sempre puntati a terra, un metro davanti ai piedi.
Gli altri sono già arrivati al traguardo quando Matt non ha ancora completato il primo giro. Dopo il primo scatto entusiasta, ha rallentato, sbuffa e barcolla, quasi si ferma mentre intorno è silenzio. Un silenzio che non dura molto. Dapprima è il signor Blayne, l'insegnante di ginnastica, ad avvicinarsi a Matt. Forse vuole solo sincerarsi delle sue condizioni, forse vuole incoraggiarlo. O forse gli dice che "va bene così, sei stato bravo". Matt fa un cenno col capo e riprende la sua corsa, taglia il traguardo e prosegue per il secondo giro.
Ed è a questo punto che la scena cambia radicalmente. Un bambino dopo l'altro, i ragazzini della Colonial Hills si avvicinano a Matt, sono sempre di più, dieci, venti, cinquanta. Scandiscono in coro il suo nome, battono ritmicamente le mani, quasi a dettare l'andatura al loro compagno. Ma nessuno, nessuno, si permette di precederlo. Sono tutti lì, dietro Matt, a spingere, osservando il numero di gara sulla schiena del loro piccolo Dorando Pietri o Forrest Gump, un cartoncino attaccato con una spilla.
Finché Matt taglia il traguardo e viene travolto dall'abbraccio di bambini bianchi, neri, maschietti, femminucce. Diversi e uguali, come in fondo tutti siamo su questa scheggia di pietra lanciata nello spazio. L'impresa di Matt e il clima di serenità in cui si svolge, rappresentano un messaggio potente. E una vittoria di tutti. Ma in fondo, visto che siamo negli Usa, ha ragione lo slogan di molti tifosi del footbal americano che allo stadio masticano arachidi e bevono birra: "Vincere, perdere...Ma a chi interessa?". (02 giugno 2012)


font:http://www.repubblica.it/esteri/2012/06/02/news/usa_i_400_metri_di_matt-36386626/

Educazione: Ragazze, c'è papà di guardia

Lei ha 16 anni, la sera esce con gli amici. Ma se all’una e un quarto di notte – 15 minuti dopo il tempo stabilito – non è ancora tornata, un padre «come si deve» non aspetta inerte in salotto, ma sale in macchina e la va a cercare. E quando lei uscirà con un ragazzo – perché capiterà, prima o poi: le figlie non vanno alle elementari in eterno –, lo stesso padre non permetterà che lui l’attenda in strada: pretenderà invece che entri in casa, che si presenti e, guardandolo negli occhi, gli farà capire che lo ritiene responsabile di quello che succederà alla sua bambina. Bambina, sì, perché a 16 anni (ma anche a 18 o a 20) le ragazze hanno bisogno ancora e sempre di una guida. Quindi, padre (spesso confuso) di un’adolescente, occorre restare sul campo di battaglia. Proteggerla. Difenderla. Intervenire. Alzare barriere intorno a lei. Non lasciarla sola, alla mercé di sé stessa e di una società che la vuole far crescere prima del tempo. Una prospettiva rivoluzionaria, in tempi di disimpegno educativo come quelli che viviamo. In tempi in cui padri (e madri) si dedicano a spa e massaggi, running, free climbing e bungee-jumping, convinti (o, meglio, speranzosi…) che il loro compito termini quando i figli sono alle superiori. Che, dopo essere diventati degli assi a cambiare pannolini e a preparare pappe – i giovani papà questo l’hanno imparato, ed è già stata una conquista – beh, adesso tocca a loro giocarsi la partita. Soprattutto se femmine, perché quando crescono la delega alla madre diventa in bianco: i padri, semmai, si limitano a un ruolo «di spalla», perché donna con donna ci si capisce di più. Sbagliato, sbagliatissimo. È vero esattamente il contrario: il bello, per padri di figlie femmine, viene proprio con l’adolescenza. Sono loro a costruire il modello di uomo a cui in futuro le figlie si avvicineranno. È sotto lo sguardo del padre che una bambina diventa donna. Dunque, come non si può disertare al ruolo di padre accanto ai figli bambini, questo vale ancora di più con i teenager. La chiamata dei padri alle armi arriva da una pediatra americana di lunga esperienza, Meg Meeker, madre di quattro figli. Nell’ultimo decennio ha visto il suo studio riempirsi di quattordicenni depresse, anoressiche, bulimiche, con il cuore a pezzi. Colpa della libertà in cui vivono e anche del fatto che nessuno dice loro con fermezza e autorevolezza quali sono le regole della casa e, soprattutto, che le facciano rispettare. Cari padri, chiede la Meeker in Papà sei tu il mio eroe (Ares, pp. 256, euro 16), volete questo destino di infelicità per le vostre figlie? Volete chiudere un occhio quando passerà le notti in bianco in discoteca? Volete che all’università passi il tempo a imbastire "storie" perdendo di vista l’obiettivo? Volete vederle uscire di casa a 12 anni in minigonna e top? I padri possono impedire tutto questo, sostiene con piglio tutto americano la Meeker. Lo possono fare perché proprio da loro – gli uomini di casa – le figlie cercano l’autorità, la fermezza. Non l’amicizia, non la complicità: proprio le regole. Li odieranno, ma li rispetteranno. E sapranno che c’è qualcuno che le ama.

Però occorre rimboccarsi le maniche e capire, come scrive nella prefazione Mariolina Ceriotti Migliarese, «qual è la parte che compete loro nei confronti delle meravigliose piccole donne di oggi, così sfrontate, così vulnerabili, così esigenti, così belle...».  L’adolescente, spiega la Ceriotti Migliarese, «ha bisogno che iI padre, primo rappresentante per lei del mondo maschile, ottenga la sua stima e le insegni cosa può e deve aspettarsi da un uomo; che le insegni il rispetto di sé stessa attraverso il rispetto che lui le dimostra». Una donna che è stata amata e rispettata dal proprio padre «non ha bisogno di lottare contro il maschile perché può riconoscerlo complementare a sé». Sembra facile, ma per stare accanto in modo consapevole a una teenager bisogna attrezzarsi. Nella pratica, occorre dimostrare affetto e accoglienza ma nella fermezza. Niente pigiama party a 13 anni, niente discoteche fino a 16, niente vacanze «solo ragazzi», orari ferrei per il rientro alla base. Se da un’amica, durante un ritrovo, la piccola ha bevuto troppe birre, be’, in quella casa non ci entrerà più. Se c’è bisogno di una punizione, nessuna paura a darla. Nessun imbarazzo a dirle che il suo corpo esige rispetto, che deve aspettare e non cedere alle pressioni dei ragazzi. Sono le regole di casa, dovrà rispettarle. Ma perché deve essere proprio il padre a sobbarcarsi il «lavoro sporco»? Perché la sua presenza attiva in famiglia è una buona assicurazione contro la devianza, l’abbandono scolastico e, per entrare in ambito di comportamenti sessuali, la promiscuità, i rapporti e le gravidanze precoci. E poi perché quella del padre è l’immagine di uomo con la quale la figlia crescerà. Se sarà autorevole e determinato, cercherà un compagno di vita autorevole e determinato. Se sarà distratto e superficiale, menefreghista e poco affettuoso, è probabile che anche lei si accontenterà di un marito così, andando incontro a disastri sentimentali. Potrebbero sembrare semplificazioni all’americana, ma queste considerazioni sono supportate da una gran mole di ricerche. Regole, controllo, severità. Ma il padre di una teenager sa come può essere duro tutto questo, quali scenate e pianti e urli e ricatti emotivi si scatenano in casa. L’importante è non arrendersi e accompagnare le regole con il dialogo e con le giuste motivazioni. Ne vale la pena. I padri che sogna la Meeker sono gli stessi che immaginava Barack Obama quando in un discorso in campagna elettorale (era il 2008) disse: «Padri, siate migliori».

Un richiamo giusto, soprattutto se cade in una società come quella americana, in cui il 70% dei giovani non vive con il proprio padre naturale. A maggior ragione, essere un padre efficace vuol dire togliersi del tempo per stare con le figlie, concentrarsi su di loro, mettere a punto un piano educativo fin da quando sono piccole, non mettere al primo posto né carriera né sport né vita sociale ma proprio loro.  Dell’importanza della figura del padre si parla ormai da anni, anche in Italia non mancano studi (anche se, per la verità, concentrati sui figli piccoli), ma quel che conta, alla resa dei conti, è la pratica: e questo libro insegna come un padre può tornare a essere, come è sempre stato, quello che detta le regole in casa. Con una nuova amorevolezza, certo, con un nuovo coinvolgimento affettivo, ma pur sempre con autorità e fermezza.

Antonella Mariani 

font: http://www.avvenire.it/Cultura/Pagine/ragazze-papa-di-guardia.aspx
font foto:http://cresimadimatilde2010.blogspot.it/2010_05_01_archive.html

Salviamo la 'banda' Zeman

La domenica calcistica ha regalato  la promozione in serie A del Pescara di Zeman. Una storia bellissima perché è la vittoria di una squadra ma soprattutto di personaggio scomodo, almeno per quello che possiamo vedere dall'aspetto pubblico e da ciò che appare (io non ho la fortuna di conoscerlo personalmente). E' un risultato straordinario per il calcio che a me piace, quello fatto di proposta offensiva, di difesa diversa della palla e della porta. È il calcio che dovrebbe sempre vincere, proprio perché invece è molto più facile impedire di essere dribblati che dribblare. E Zeman in questo è stato un precursore, un allenatore che ha sempre preteso dai proprio uomini un gioco d'attacco fatto di gol. Per la verità nelle grandi squadre che ha guidato non è riuscito a coniugare l'equilibrio tra la fase offensiva e quella difensiva, ma il campionato vinto a Pescara è quello che serve al nostro pallone, ancora di più a un campionato come la serie B, che dovrebbe dimenticare tatticismi e l'ansia di fare risultato a tutti i costi: tutte le squadre dovrebbero imparare e vincere con il bel gioco. Perché la serie B dovrebbe diventare, mi auguro, il bacino dei talenti futuri del calcio italiano.
La quasi totalità della rosa del Pescara è composta di giocatori italiani (solo tre gli stranieri), uomini che in quasi tutti i campionati europei il prossimo anno giocherebbero titolari. Invece è sotto gli occhi di tutti che i campioncini della squadra di Zeman nella prossima stagione, se cambieranno maglia, in Italia faranno panchina. Vedi Verratti, 'bloccato' da Pirlo se andrà alla Juve, o Insigne e Immobile con Cavani e Hamsik al Napoli. Sono tutti invece calciatori che, per la loro crescita e per la Nazionale, sarebbe bello che giocassero titolari. Il mio sogno è che possano continuare a farlo nel Pescara di Zeman in serie A. Sarebbe bellissimo vedere questi ragazzi giocare alla stessa maniera anche massimo campionato, affrontare le grandi squadre e i grandi appuntamenti, con risultati soddisfacenti per i tifosi, l'allenatore e per loro stessi. E poi mi piacerebbe che la squadra non venisse smembrata e magari riempita di giocatori che vengono presi all'estero, dal Sudamerica o in altri mercati meno importanti, dove attingono la maggior parte delle società medio-piccole per motivi che sono chiari a tutti. 

font:http://www.repubblica.it/rubriche/visti-dallala/2012/05/21/news/banda_zeman_vittoria_napoli-35639670/?ref=HRLS-3

PGS Liguria:In marcia nel Parco delle Cinque Terre

Il gruppo Pgs Marce La Spezia, con il patrocinio del Comune di Riomaggiore e del Parco Nazionale delle Cinque Terre, organizza domenica 25 marzo la marcia non competitiva a passo libero (km. 5 – 8 – 18 – 25). I percorsi si snoderanno attraverso i sentieri del Parco tra vigneti, uliveti, castagneti e macchia mediterranea. I partecipanti avranno la possibilità di passeggiare lungo viottoli e scale centenarie che fino a qualche anno fa erano le uniche vie di collegamento tra i borghi di questo tratto dell’estremo levante ligure; di immergersi nei borghi marinari di Riomaggiore e Manarola, collegati fra loro dalla famosa “Via dell’ Amore”; di visitare le frazioni collinari di Groppo e Volastra, di Porciana e Pianca immerse nel verde dei vigneti a terrazza, con panorami unici sulla Costa Ligure, sull’ Arcipelago Toscano, sulle isole Palmaria e Tino, sulla Corsica e sugli altri paesi delle Cinque Terre. La marcia, valida per i concorsi ”Palio del Marciatore” – Internazionali IVV - Nazionali FIASP - Piede Alato - Brevetto Stramarciatore di Viareggio, avrà luogo con qualsiasi condizione metereologica.

PGS Piemonte - Pattinaggio: Asti, i "verdetti" dei campionati provinciali



Il Palameridiana di Settime ha visto impegnati una settantina di giovani pattinatori. Assenti giustificati, per impegni in Nazionale, Noemi Mattina, Federico Trento e Andrea Nicastro.Tutti i vincitori delle singole categorie


Si sono svolti nella cornice dell’impianto sportivo “Palameridiana” di Settime d’Asti i Campionati Provinciali di pattinaggio artistico 2012: la due giorni di gare, organizzata congiuntamente da Blue Roller, New Asti Skating e PGS Nicese, ha visto misurarsi circa 70 giovani atleti di cui molti alla loro prima esperienza in una gara ufficiale. Nella giornata di sabato hanno gareggiato i più giovani atleti, delle categorie dei Giovanissimi ed i Esordienti. Nella categoria Giovanissimi A femminile ha vinto il titolo provinciale Piatto Marta (New Asti Skating) che, prima negli esercizi obbligatori e seconda negli esercizi liberi, si è imposta sulle compagne di squadra Damasio Antonella, Zichitella Martina (rispettivamente seconda e terza), Provenzano Eleonora e Sanfilippo Desiree’.
La Categoria Giovanissimi B Femminile ha visto affermarsi Staccione Sara (Blue Roller) prima sia negli esercizi liberi che negli obbligatori, sulle compagne di squadra Sgrinzi Sara e Cavalli Giorgia (seconda e terza) a seguire Mondo Valentina, Cavallo Giulia Rita (Blue Roller) e Stradella Alice (New Asti Skating), vincitore della categoria Maschile è risultato Grimaldi Alberto (PGS Nicese).
Nella categoria Esordienti A Femminile El Fouton Gaia Nesrin (Blue Roller) con due vittorie in libero e obbligatori si è affermata su Ruscalla Veronica e Russo Federica (New Asti Skating) a seguire Bincoletto Irene, Pisana Alessia, Bernardini Alessia e Bernardini Gaia (New Asti Skating).
Nella Categoria Esordienti B Femminile Cavagnero Chiara (Blue Roller), vincitrice della gara di libero, si è affermata di misura nella classifica di combinata su Bologna Giada (New Asti Skating) vincitrice della gara di esercizi obbligatori.
Nella categoria Esordienti B maschile Matteo Penasso (Blue Roller) si è aggiudicato il titolo provinciale con una gara lineare e senza sbavature, eseguendo un esercizio libero di ottimo livello. Nella divisione Nazionale A Coppia Danza ha vinto la coppia composta da Brovero Matilde e Gasparin Marco (Blue Roller).
Nella giornata di domenica hanno gareggiato le Categorie Esordienti regionali, Allievi A, Allievi B, Allievi Regionali, ed i più esperti atleti che militano nelle Divisioni Nazionali e nelle Categorie Effettive.
Esordienti Regionali, nella vivacissima gara di esercizi obbligatori che con ben 16 atleti iscritti è stata la più partecipata si è affermata Forno Beatrice (New Asti Skating) seconda e terza rispettivamente Bravo Clelia (Blue Roller) e Conta Camilla (PGS Nicese) a seguire Todeschini Asia (Blue Roller), Valente Rachele Sigliano Federica (Blue Roller), De Rensis Martina, Bortolomai Gaia (New Asti Skating), Piccarollo Sofia Giulia (PGS Nicese), Albano Francesca (Blue Roller), Bortolomai Ilaria Massa Federica, Ambrosone Giorgia, Bruni Stefania (New Asti Skating), Biscione Eleonora (PGS Nicese) e Montanella Giulia (New Asti Skating).
Nella stessa categoria la gara di Libero è stata vinta da Todeschini Asia (Blue Roller) seconda Conta Camilla (PGS Nicese) e terza Bravo Clelia (Blue Roller) davanti alle compagne di squadra Sigliano Federica e Albano Francesca.
La gara Allievi A femminile ha visto affermarsi Berta Alessandra (PGS Nicese), mentre la combattutissima gara delle Allieve B ha visto prevalere nella combinata aggiudicandosi il titolo provinciale Celeste Melissa (PGS Nicese) davanti a Romito Aurora (New Asti Skating) e Marchelli Chiara (PGS Nicese).
Tra Allieve Regionali ha vinto la gara di Obbligatori Franco Francesca (Blue Roller) a seguire Brovero Matilde (Blue Roller), Limasco Melissa (PGS Nicese), Alloisio Ilaria, El Fouton sabrina (Blue Roller), Salatin Valentina e Bisacco Sara (PGS Nicese). Nella stessa categoria la gara di libero è stata vinta da Alloisio Ilaria al secondo e terzo posto Brovero Matilde ed El Fouton sabrina (Blue Roller) a seguire Limasco Melissa, Salatin Valentina, Bisacco Sara e Grimaldi Veronica (PGS Nicese).
Nella Divisione Nazionale A femminile ha vinto la gara di obbligatori e la combinata Greta Salimbene (New Asti Skating) seguita dalla compagna di squadra Bologna Giada, vincitrice del gara di libero Carlotta Mazzon (PGS Nicese).
Nella Divisione Nazionale B m. ha vinto il titolo di libero Boido Giacomo (PGS Nicese). Divisione Nazionale B femminile in una gara molto combattuta il titolo di combinata è andato a Gavelli Giulia (PGS Nicese) mentre obbligatori è andato a Romito Barbara (New Asti Skating), nella gara di libero vinta da Marta Mingolla (New Asti Skating) ha ben figurato anche la compagna di squadra Pippia Sara.
Nella divisione Nazionale C femminile si è affermata in Obbligatori, Libero a e Combinata Erika Cerutti (PGS Nicese), seguita da Pippia Jessica (New Asti Skating). Divisione Nazionale D femminile titolo di Obbligatori a Nicolò Sara (Blue Roller). Nella Categoria Cadetti femminile, ha vinto obbligatori, libero e combinata Borsello Celeste (New Asti Skating)
Nella Categoria Jeunesse femminile. ha vinto la gara di obbligatori Mingolla Marta (New Asti Skating) seguita dalla compagna di squadra Pippia Sara. Nella Categoria Juniores femminile si è affermata nella gara di obbligatori Pippia Jessica (New Asti Skating).
"Si è trattato se di un campionato Provinciale ricco di luci e con alcune ombre - spiega Giancarlo Trento, delegato provinciale FIHP - per un verso emergono segnali confortanti per il pattinaggio astigiano per il numero dei giovani atleti che si sono affrontati nelle gare e per gli ottimi livelli di pattinaggio che tutti, aldilà delle classifiche, hanno saputo dimostrare per altro verso manifestano le già note difficoltà di utilizzo della pista di allenamento della PGS Nicese che oltre che creare difficoltà ad una atleta di livello internazionale come Noemi Mattina, pesano sulla possibilità di svolgere attività per i più giovani".
Certamente positivo in questi campionati è stato registrare una crescita del livello tecnico degli atleti di tutte le società, che fa ben sperare per il futuro; una punta di rammarico per non aver potuto vedere in pista tre degli atleti di punta del pattinaggio Astigiano Noemi Mattina (PGS Nicese), Andrea Nicastro e Federico Trento (Blue Roller) impegnati a Calenzano (FI) con il raduno della Nazionale.