Jason Becker, il genio della chitarra prigioniero della Sla

Quando nel 1988 i medici gli diagnosticarono la Sclerosi laterale amiotrofica, Jason Becker aveva solo 19 anni ma era già una stella fra gli “addetti ai lavoro”, considerato uno dei più talentuosi chitarristi rock sulla scena.
Nato a Richmond, in California, Jason era stato scoperto da un talent scout di giovani fenomeni della sei corde, Mike Varney. A 16 anni aveva formato un duo insieme a un  chitarrista di 7 anni più grande di lui e che avrebbe fatto strada, Marty Friedman. I due, sotto la sigla “Cacophony”, incisero nel 1987 e nel 1988 un paio di album strumentali che stupirono per la qualità e la giovanissima età degli autori. Nel 1988 Jason destò impressione anche con un album solista, “Perpetual Burn”, un piccolo capolavoro di virtuosismo e metal neo-classico che gli valse un ingaggio da parte David Lee Roth, ex cantante dei Van Halen, per il suo nuovo tour. Un impegno che Jason non riuscì a portare a termine a causa di uno strano indolenzimento delle mani. Dopo una serie di esami arrivò la diagnosi fatale: morbo di Lou Gehrig e un’aspettativa di vita, secondo i medici, di pochi anni.
Ritiratosi dalle scene e persa lentamente la mobilità, Jason Becker non è rimasto solo una leggenda per gli appassionati di chitarra elettrica, ma è rimasto strenuamente legato alla musica. Grazie alle apparecchiature acquistate con il contributo economico degli amici e dei fan, ha continuato a comporre attraverso il movimento degli occhi e delle palpebre. Le sue condizioni di salute si sono stabilizzate alla fine degli anni ’90 e 22 anni dopo la scoperta della malattia continua a vivere, accudito dai genitori e dalla sorella.
“Not dead yet”, non ancora morto, è il toccante film-documentario sulla sua vita uscito in America all’inizio dell’anno e che in Italia viene presentato in anteprima stasera (11 giugno), al Biografilm di Bologna (www.biografilm.it)
Andrea Galli 
 
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Così gli sceicchi cancellano i simboli cristiani

«Toglieteci tutto, ma non la croce cristiana». È questo l’appello accorato che da Madrid sta girando per l’Europa del pallone, da tempo divenuta la nuova terra di conquista degli sceicchi islamici. D’accordo che per il vil denaro il mercenariato del calcio è disposto a tutto, ma addirittura rinunciare alla storia e alla tradizione, in questo caso “sacra”, del proprio simbolo, questo è inaccettabile. Eppure il club più noto e amato del pianeta calcio, il Real Madrid, alla faccia dei suoi 150 milioni di tifosi sparsi per il mondo (dei quali in Spagna il 30% si dichiarano «cattolici praticanti») lo ha fatto.
Via quella croce dalla corona concessa dalla Chiesa in via del tutto straordinaria al re Alfonso XIII - nel 1920 - per non offendere la religione dei “fratelli musulmani”, entrati a suon di petrodollari nella stanza dei bottoni del club del patron Florentino Perez. Come non accontentare lo sceicco che ha già promesso alle “Merengues” aiuti sostanziosi da qui all’eternità e la possibilità immediata di far partire un progetto di una seconda “Casa Blanca” (modernissimo centro sportivo) nell’isola di Ras Al Khaimah, una delle “sette sorelle” che formano gli Emirati Arabi.
E gli acerrimi nemici del Real, il Barcellona, che per un secolo (112 anni per l’esattezza) hanno tenuto alto il vessillo dell’indipendenza catalana, persino dagli sponsor più opulenti, ma adesso nell’era del “calcioshowbiz” sventolano bandiera bianca. Nella finale del torneo di Abu Dhabi, Messi e compagni sono scesi in campo con una maglia alla quale era stata tassativamente vietata l’esposizione dello stemma classico del Barça, quello con la croce di Sant Jordi. Via anche qui il simbolo cattolico, divieto di farsi anche il segno della croce o di pregare in campo e massima fierezza invece nell’esporre la sponsorizzazione, “Qatar Foundation”, sulla gloriosa casacca blaugrana. Il presidente Laporta per fortuna non ha archiviato lo sponsor solidale, Unicef, al quale il Barcellona continua a dare il suo generoso contributo, ma come poteva rinunciare ai 166 milioni che nel prossimo quinquennio sborserà la holding a cui fa capo il munifico Tamin bin Hamad Al-Thani? Il principe ereditario e futuro Re del Qatar, classe 1980, è partito da un pezzo alla conquista del mondo del pallone.
L’obiettivo finale, peraltro già raggiunto: i Mondiali di calcio del Qatar, nel 2022. «Il Mondiale impossibile», secondo i benpensanti, smentiti e reso reale dagli appoggi del famelico e venalissimo presidente della Fifa, Joseph Blatter che si è inginocchiato dinanzi allo stemma dell’impero degli Al-Thani. Un tesoro da 40 miliardi di euro, dei quali una “piccola parte”, peraltro molto sostanziosa, finisce nella “Qatar Sport Investiments”.
Il giocattolino di Tamin, rampollo di una famiglia a capo di un Paese, indipendente dall’Inghilterra dal 1971, dove risiedono stabilmente appena 1,7 milioni di abitanti, ma che possiede un tasso di crescita che nel 2010 si attestava intorno a un magnifico più 16,3%. Numeri che fanno capire come sia facile per la famiglia Al-Thani scalare e convertire il Barcellona che dopo la Febbre a 90° contrae pericolosamente quella dell’oro.
Ancora più semplice per i discendenti dei mori regalarsi, sempre nella Liga spagnola, il Malaga, e poi puntare in Francia e mettere le mani sul Paris Saint Germain, con la benedizione dell’amico, l’ex Presidente Sarkozy e un assegnuccio da 70 milioni di euro, giusto per controllare almeno il 70% del club. Il direttore generale del PSG, il cattolicissimo brasiliano Leonardo, con un contratto da 5 milioni a stagione per i prossimi quattro anni, non ha esitato a mettersi a completa disposizione del principe del Qatar che per allenatore ha ingaggiato anche il nostro Carlo Ancelotti, rendendolo, tra i malumori dell’opinione pubblica transalpina, l’uomo dallo stipendio più alto di Francia: 6 milioni di euro. Ma lo sponsor sulla maglia del PSG, “Fly Emirates”, lo forniscono gentilmente i fratelli musulmani di Dubai che fino al 2015 sono legati anche al Milan con un contratto da 60 milioni di euro. Finora il “diavolo” simbolo della società del presidente Silvio Berlusconi, a quelli di Dubai pare non dia fastidio, ma non è escluso che prima o poi possano emettere una “fatwa”, come quella che due anni fa colpì i rossoneri in Malesia. Due imam, feroci quanto le tigri di Mompracen bandirono dai campetti malesi la maglia del Milan: «Perchè un musulmano - disse il leader religioso Nooh Gadot - non deve venerare simboli di altre religioni o il diavolo». I signori di Dubai sponsorizzano anche l’Amburgo nella Bundesliga e per 90 milioni di euro hanno acquistato il club spagnolo del Getafe.
Ma il capolavoro del gruppo è stato la conquista del title-sponsor dello stadio dell’Arsenal che per i prossimi 15 anni (per un totale 100 milioni di euro) recherà l’intitolazione “Emirates Airlaines”. Volano le azioni e gli investimenti in nome di Allah anche da Abu Dhabi. Dalla sua regale dimora, lo sceicco Mansour ha deciso di spendere e spandere per rendere il Manchester City una potenza mondiale del football. E finalmente i 250milioni di sterline (23 dei quali serviti per acquistare Mario Balotelli), dopo 44 anni di attesa, hanno fruttato la tanta agognata conquista della Premier da parte del City allenato da Roberto Mancini. Dal Bahrain sono partiti con una cifra e un profilo più basso, accontendadosi di rilevare in Spagna il piccolo “Real”, quello del Racing Santander. Per ora i magnati della Western Gulf preferiscono i motori (Dal 2004 organizzano il GP di Formula 1 del Bahrain) come dimostra il 30% delle loro azioni nella McLaren. Ma dove c’è sport, ormai, lì c’è la casa del “sultano”. Maragià che arrivano con le loro truppe cammellate per stipulare contratti faraonici, ma imponendo sempre il proprio credo che non tiene mai conto della storia e tanto meno della tradizione religiosa del Vecchio Continente, così in crisi da accettare di tutto. Tanto è lo sceicco che paga.
Massimiliano Castellani 
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I fantastici 400 metri di Matt: la lezione di un piccolo disabile

Il suo cognome non è noto, ma la sua impresa, immortalata in un filmato, sta facendo il giro del mondo. Affetto da paralisi spastica cerebrale, il bambino ha gravissime difficoltà motorie. ma partecipa alla gara di corsa. Arriva ultimo, ma è un trionfo di umanità

di PAOLO GALLORI
IO ESISTO. E sono come voi. Forse non vi batterò mai. Ma, in fondo, esiste un essere umano sicuro di poter affermare che su questa terra non esista nessuno in grado di superarlo in qualsiasi prova d'abilità, intelligenza o coraggio? Forse era questo il mantra che il piccolo Matt si ripeteva mentre arrancava e osservava i suoi compagni di scuola corrergli davanti e sparire già dopo la prima curva. Ma lui non se curava. Lui era in gara con la vita. E grazie a lui, la vita ha vinto.

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Matt, cognome sconosciuto, frequenta le scuole elementari "Colonial Hills" di Worthington (Ohio). Ha un bellissimo viso, tratti sottili e gentili. E' completamente calvo, ma non ci fa caso nessuno. Perché Matt è affetto da una grave forma di paralisi spastica cerebrale. In pratica, Matt ha enormi difficoltà motorie, perché non riesce a controllare e comandare gli arti. Per questo, chi lo osserva per la prima volta non fissa i suoi occhi, non nota quella bella testolina lucida. L'attenzione è tutta per gli sforzi che fa nel semplice camminare, caracollando passo dopo passo come un soldatino di latta.

Matt è abituato a quegli sguardi, la curiosità e la pietà degli altri non gli interessano. Perché lui crede in se stesso e nelle sue gambe. Ci crede al punto da iscriversi alla gara dei quattrocento metri piani ai giochi della gioventù del suo istituto. Eccolo,
sulla linea di partenza, assieme a un pugno di avversari. Davanti a sé, Matt ha una pista nell'erba lunga 200 metri, da correre a perdifiato per due volte. Un insegnante nel ruolo di starter avverte i concorrenti: "Vi dirò semplicemente GO!".
"Go, vai! In fondo è facile, devo semplicemente scattare e lasciar andare le gambe". L'insegnante dà il via alla competizione, pochi metri e Matt già mangia la polvere sollevata dalle scarpette dei coetanei. Da quel momento, in pista restano solo lui e la sua sfida. Le ginocchia di cemento, cosce e polpacci, sottilissimi, piegati rigidamente a elle, è come se Matt stia correndo su piccoli trampoli, occhi sempre puntati a terra, un metro davanti ai piedi.
Gli altri sono già arrivati al traguardo quando Matt non ha ancora completato il primo giro. Dopo il primo scatto entusiasta, ha rallentato, sbuffa e barcolla, quasi si ferma mentre intorno è silenzio. Un silenzio che non dura molto. Dapprima è il signor Blayne, l'insegnante di ginnastica, ad avvicinarsi a Matt. Forse vuole solo sincerarsi delle sue condizioni, forse vuole incoraggiarlo. O forse gli dice che "va bene così, sei stato bravo". Matt fa un cenno col capo e riprende la sua corsa, taglia il traguardo e prosegue per il secondo giro.
Ed è a questo punto che la scena cambia radicalmente. Un bambino dopo l'altro, i ragazzini della Colonial Hills si avvicinano a Matt, sono sempre di più, dieci, venti, cinquanta. Scandiscono in coro il suo nome, battono ritmicamente le mani, quasi a dettare l'andatura al loro compagno. Ma nessuno, nessuno, si permette di precederlo. Sono tutti lì, dietro Matt, a spingere, osservando il numero di gara sulla schiena del loro piccolo Dorando Pietri o Forrest Gump, un cartoncino attaccato con una spilla.
Finché Matt taglia il traguardo e viene travolto dall'abbraccio di bambini bianchi, neri, maschietti, femminucce. Diversi e uguali, come in fondo tutti siamo su questa scheggia di pietra lanciata nello spazio. L'impresa di Matt e il clima di serenità in cui si svolge, rappresentano un messaggio potente. E una vittoria di tutti. Ma in fondo, visto che siamo negli Usa, ha ragione lo slogan di molti tifosi del footbal americano che allo stadio masticano arachidi e bevono birra: "Vincere, perdere...Ma a chi interessa?". (02 giugno 2012)


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Educazione: Ragazze, c'è papà di guardia

Lei ha 16 anni, la sera esce con gli amici. Ma se all’una e un quarto di notte – 15 minuti dopo il tempo stabilito – non è ancora tornata, un padre «come si deve» non aspetta inerte in salotto, ma sale in macchina e la va a cercare. E quando lei uscirà con un ragazzo – perché capiterà, prima o poi: le figlie non vanno alle elementari in eterno –, lo stesso padre non permetterà che lui l’attenda in strada: pretenderà invece che entri in casa, che si presenti e, guardandolo negli occhi, gli farà capire che lo ritiene responsabile di quello che succederà alla sua bambina. Bambina, sì, perché a 16 anni (ma anche a 18 o a 20) le ragazze hanno bisogno ancora e sempre di una guida. Quindi, padre (spesso confuso) di un’adolescente, occorre restare sul campo di battaglia. Proteggerla. Difenderla. Intervenire. Alzare barriere intorno a lei. Non lasciarla sola, alla mercé di sé stessa e di una società che la vuole far crescere prima del tempo. Una prospettiva rivoluzionaria, in tempi di disimpegno educativo come quelli che viviamo. In tempi in cui padri (e madri) si dedicano a spa e massaggi, running, free climbing e bungee-jumping, convinti (o, meglio, speranzosi…) che il loro compito termini quando i figli sono alle superiori. Che, dopo essere diventati degli assi a cambiare pannolini e a preparare pappe – i giovani papà questo l’hanno imparato, ed è già stata una conquista – beh, adesso tocca a loro giocarsi la partita. Soprattutto se femmine, perché quando crescono la delega alla madre diventa in bianco: i padri, semmai, si limitano a un ruolo «di spalla», perché donna con donna ci si capisce di più. Sbagliato, sbagliatissimo. È vero esattamente il contrario: il bello, per padri di figlie femmine, viene proprio con l’adolescenza. Sono loro a costruire il modello di uomo a cui in futuro le figlie si avvicineranno. È sotto lo sguardo del padre che una bambina diventa donna. Dunque, come non si può disertare al ruolo di padre accanto ai figli bambini, questo vale ancora di più con i teenager. La chiamata dei padri alle armi arriva da una pediatra americana di lunga esperienza, Meg Meeker, madre di quattro figli. Nell’ultimo decennio ha visto il suo studio riempirsi di quattordicenni depresse, anoressiche, bulimiche, con il cuore a pezzi. Colpa della libertà in cui vivono e anche del fatto che nessuno dice loro con fermezza e autorevolezza quali sono le regole della casa e, soprattutto, che le facciano rispettare. Cari padri, chiede la Meeker in Papà sei tu il mio eroe (Ares, pp. 256, euro 16), volete questo destino di infelicità per le vostre figlie? Volete chiudere un occhio quando passerà le notti in bianco in discoteca? Volete che all’università passi il tempo a imbastire "storie" perdendo di vista l’obiettivo? Volete vederle uscire di casa a 12 anni in minigonna e top? I padri possono impedire tutto questo, sostiene con piglio tutto americano la Meeker. Lo possono fare perché proprio da loro – gli uomini di casa – le figlie cercano l’autorità, la fermezza. Non l’amicizia, non la complicità: proprio le regole. Li odieranno, ma li rispetteranno. E sapranno che c’è qualcuno che le ama.

Però occorre rimboccarsi le maniche e capire, come scrive nella prefazione Mariolina Ceriotti Migliarese, «qual è la parte che compete loro nei confronti delle meravigliose piccole donne di oggi, così sfrontate, così vulnerabili, così esigenti, così belle...».  L’adolescente, spiega la Ceriotti Migliarese, «ha bisogno che iI padre, primo rappresentante per lei del mondo maschile, ottenga la sua stima e le insegni cosa può e deve aspettarsi da un uomo; che le insegni il rispetto di sé stessa attraverso il rispetto che lui le dimostra». Una donna che è stata amata e rispettata dal proprio padre «non ha bisogno di lottare contro il maschile perché può riconoscerlo complementare a sé». Sembra facile, ma per stare accanto in modo consapevole a una teenager bisogna attrezzarsi. Nella pratica, occorre dimostrare affetto e accoglienza ma nella fermezza. Niente pigiama party a 13 anni, niente discoteche fino a 16, niente vacanze «solo ragazzi», orari ferrei per il rientro alla base. Se da un’amica, durante un ritrovo, la piccola ha bevuto troppe birre, be’, in quella casa non ci entrerà più. Se c’è bisogno di una punizione, nessuna paura a darla. Nessun imbarazzo a dirle che il suo corpo esige rispetto, che deve aspettare e non cedere alle pressioni dei ragazzi. Sono le regole di casa, dovrà rispettarle. Ma perché deve essere proprio il padre a sobbarcarsi il «lavoro sporco»? Perché la sua presenza attiva in famiglia è una buona assicurazione contro la devianza, l’abbandono scolastico e, per entrare in ambito di comportamenti sessuali, la promiscuità, i rapporti e le gravidanze precoci. E poi perché quella del padre è l’immagine di uomo con la quale la figlia crescerà. Se sarà autorevole e determinato, cercherà un compagno di vita autorevole e determinato. Se sarà distratto e superficiale, menefreghista e poco affettuoso, è probabile che anche lei si accontenterà di un marito così, andando incontro a disastri sentimentali. Potrebbero sembrare semplificazioni all’americana, ma queste considerazioni sono supportate da una gran mole di ricerche. Regole, controllo, severità. Ma il padre di una teenager sa come può essere duro tutto questo, quali scenate e pianti e urli e ricatti emotivi si scatenano in casa. L’importante è non arrendersi e accompagnare le regole con il dialogo e con le giuste motivazioni. Ne vale la pena. I padri che sogna la Meeker sono gli stessi che immaginava Barack Obama quando in un discorso in campagna elettorale (era il 2008) disse: «Padri, siate migliori».

Un richiamo giusto, soprattutto se cade in una società come quella americana, in cui il 70% dei giovani non vive con il proprio padre naturale. A maggior ragione, essere un padre efficace vuol dire togliersi del tempo per stare con le figlie, concentrarsi su di loro, mettere a punto un piano educativo fin da quando sono piccole, non mettere al primo posto né carriera né sport né vita sociale ma proprio loro.  Dell’importanza della figura del padre si parla ormai da anni, anche in Italia non mancano studi (anche se, per la verità, concentrati sui figli piccoli), ma quel che conta, alla resa dei conti, è la pratica: e questo libro insegna come un padre può tornare a essere, come è sempre stato, quello che detta le regole in casa. Con una nuova amorevolezza, certo, con un nuovo coinvolgimento affettivo, ma pur sempre con autorità e fermezza.

Antonella Mariani 

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