FAMIGLIA Con i padri separati in cerca di speranza

È possibile coltivare la speranza anche quando tutto sembra perduto e l’unica voce è un grido di dolore che sale dal profondo per dare sfogo al delirio in cui si è precipitati? È dura, a volte terribilmente dura, ma è possibile. Lo dimostrano le storie di padri separati raccolte nel volume “Il delirio e la speranza” (Erga edizioni), che hanno in comune l’angoscia di uomini che, dopo la separazione, sono stati strappati dall’affetto dei figli e, in alcuni casi, hanno dovuto aspettare anni per poterli riabbracciare.
«Fa veramente impressione – scrive nell’introduzione Miriam Pastorino, curatrice del volume – vedere con quanta leggerezza e con quanta ostinazione certe madri costringano di fatto la prole nella condizione dell’orfano di padre. Questi racconti – prosegue – vogliono far riflettere sugli inutili dolori innescati da un malinteso senso di autoaffermazione della donna, solo parzialmente giustificato dalla sua storica condizione d’inferiorità». Alla fine, sottolinea la curatrice dell’opera, con il loro comportamento, queste madri diventano esse stesse «strumenti d’angoscia e infelicità per i loro figli».
Una deriva che, purtroppo, coinvolge un numero molto alto di minori, “contesi” da adulti che, troppo impegnati ad odiarsi (come ben testimoniano alcune delle storie raccontate nel libro), dimenticano di essere anche genitori. Una condizione che, invece, non termina con il venir meno del legame matrimoniale.
«L’unico modo per dare un senso di speranza anche a vicende dolorose, come la fine di un matrimonio, è tornare a volersi bene». Così ha fatto Emanuele Scotti, autore di una delle storie de “Il delirio e la speranza”, riuscito a riemergere, persino rafforzato, da un’esperienza di separazione. Genovese, 48 anni, Scotti è stato per anni vice-presidente dell’associazione Famiglie separate cristiane, realtà che si pone accanto ai separati per sostenerli nei momenti di massima crisi. Che non sono certo mancati nemmeno nella vicenda di Scotti, separato da undici anni, dopo un matrimonio durato sette e padre di un ragazzo oggi quindicenne.
«Per me è stata fondamentale la riscoperta della fede – racconta –. Nel dolore della separazione, mi ha aiutato a vedere l’altro non come un nemico da abbattere a tutti i costi, ma come una persona con cui cercare comunque un percorso di dialogo e confronto».
Un cammino che Scotti ha fondato su convinzioni religiose profonde ma che è percorribile anche da chi non è sostenuto dal dono della fede. «In fondo – ricorda il genovese – si tratta di atteggiamenti profondamente umani che aiutano a recuperare rapporti che si considerava perduti per sempre. Riuscire a trovare cinque minuti di dialogo accettabile è già un primo passo importante verso la normalizzazione di un rapporto; fa bene agli stessi ex-coniugi ma, soprattutto, ai loro figli».
Sempre l’esperienza di Scotti suggerisce che non servono grandi discorsi o gesti eclatanti. A volte basta riuscire a dire alla propria ex-moglie «Sei una brava mamma», per cominciare ad abbattere quel muro di incomunicabilità, se non di aperta conflittualità, che spesso separa chi vede frantumare il proprio progetto matrimoniale.
«Compiere questi gesti e dire queste parole – conclude Emanuele Scotti – non è solo un segno di rispetto per il proprio ex-coniuge, ma anche e soprattutto un grande gesto d’amore per i figli, il cui equilibrio è messo a dura prova dalla separazione dei genitori. Certo, in alcuni casi anche queste attenzioni non producono il risultato sperato e il riavvicinamento non avviene. Ma chi le mette in atto stia sicuro: questi gesti d’amore non andranno perduti».

Paolo Ferrarrio 
  font:http://www.avvenire.it/Cronaca/Pagine/con-i-padri-separati-in-cerca-di-speranza.aspx

La spalla del boia

Foto da Teheran. E precipitiamo nella notte, nel dolore, nella preghiera

 L’immagine della Associated Press è di quelle che attanagliano il cuore, e su cui ci si ferma, anche se non lo si vorrebbe, perché già al primo sguardo sai che ne trarrai dolore. Teheran, 21 gennaio, pubblica impiccagione di due giovani accusati di rapina. Dentro una notte senza luci, nera come se non dovesse più sorgere l’alba, solo il flash proietta la sua fredda luce. I condannati, che dimostrano vent’anni, vengono condotti alla forca, accompagnati ciascuno dal proprio boia col volto nascosto da un cappuccio. È un non-volto dunque, una maschera, l’ultima presenza accanto ai condannati.Uno dei prigionieri mostra all’obiettivo, sulla faccia da ragazzo, una smorfia di terrore e di angoscia. Sembra così giovane che, qualsiasi cosa abbia anche fatto, chi guarda si ribella: è ancora più intollerabile giustiziare un ragazzo, che avrebbe tutta la vita per cambiare. (Già però, dietro di lui, sulle spalle del boia si intravede, pronto, il cappio). 
Ma è l’altro condannato, che turba più profondamente. Nella disperazione di chi si vede davanti la morte, appoggia, inerme come un ragazzino, la testa sulla spalla del boia, a domandare, proprio a lui, conforto. E il boia mascherato, il non-volto, non si ritrae, anzi con una mano gli cinge la spalla. Il carnefice sembra avere pietà della vittima, e desiderare, forse, che il suo terribile compito gli sia tolto. C’è una umanità struggente, fra i due, nell’istante catturato dal fotografo; un ritrovarsi, sotto la più feroce legge, per un momento tuttavia fratelli, dentro a una legge anteriore e più grande. Ma tutto questo dura pochi secondi; un regime come quello iraniano non tollererebbe debolezze nei suoi boia. La pubblica conferma di un terrore eretto a sistema è del resto la ragione di quella esecuzione in piazza di due, forse, giovani banditi da strada.
 Intanto il fotografo si è voltato a riprendere il pubblico: una gran folla da stadio, e come allo stadio eccitata, i pugni alzati a domandare vendetta, le facce ansiose che "giustizia" sia fatta. L’eccitazione della folla gela il sangue, e, per contrasto, sottolinea l’istante di pietà del carnefice. Solo tre volti sono del tutto estranei a questa ebbrezza di sangue: quelli di tre donne. 
Dietro alle sbarre che separano la piazza dal patibolo, una ha il volto chino, nascosto nel pianto; una, giovane, si copre la faccia con le mani, per non vedere oltre; una terza, giovanissima, singhiozzante, nel suo strazio ha le fattezze delle donne ai piedi della Croce, nelle tele dei pittori antichi. Una accanto all’altra le tre – sorelle, spose? – testimoni di un antico femminile destino, volti di pietà là dove la violenza e il potere pretendono l’ultima parola. Il fotografo non può o non vuole cogliere l’istante della esecuzione. Solo ci mostra, in un ultimo scatto, notturno, immoto e appeso al cappio, il corpo del ragazzo che s’appoggia alla spalla del boia.
Tre foto che ammutoliscono. Ed è solo, pensi, uno squarcio aperto su quella grande parte di mondo che sfugge generalmente agli obiettivi; è solo una tessera nella ferocia che ogni giorno – noi non vedendo – opera in Siria, o in lontani Paesi africani. Nell’oggi, in questo istante, contemporanea a noi. Come stare davanti a questo male, da cristiani? Nel suo "Diario" Etty Hillesum, giovane ebrea olandese morta ad Auschwitz dopo una sbalorditiva maturazione interiore, scrisse, in una delle notti in cui i suoi amici lasciavano Amsterdam per i campi di raccolta: «Stanotte non si dovrebbe poter chiudere occhio. Si dovrebbe soltanto poter pregare». La notte più grande e atroce era, allora, sul popolo ebraico, sull’Europa, su noi. Ma quante notti, grandi o ignote, o ignorate, scorrono nell’oggi, in regimi di terrore, in genocidi e stragi, lontano dai nostri occhi? Quei tre scatti da Teheran, quei due ragazzi, la folla che urla e aspetta il sangue. Forse anche noi dovremmo, per tutte le notti che non sappiamo, ogni sera, per un momento non distratti, inginocchiarci e pregare.

Marina Corradi

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Addio Alice, la ragazza malata morta senza alcun rimpianto

Da sei anni sapeva di essere condannata. Così aveva stilato sul web la lista dei desideri: dall’incontro con i Take That a quello con le balene. Li ha soddisfatti tutti

Alice se n'è andata sabato sera, chiudendo sul nascere una vita brevissima,diciassette anni appena. Con questo nome si sarebbe meritata un suo paese delle meraviglie, come se lo meritano tutte le creature di un'età così fresca, anche quelle che portano un altro nome. Invece le è toccato qualcosa di ben diverso: un linfoma rarissimo e famigerato, detto di Hodgkin, tre casi su centomila e nessuna possibilità di uscirne. Quando le hanno comunicato la condanna aveva quattordici anni. A quel punto, Alice ha ritenuto di doversi costruire in proprio, accelerando un poco le procedure, stringendo di molto i tempi, il personalissimo paese delle meraviglie. Ognuno ha la sua bucket list, si dice dalle sue parti, in Inghilterra: la lista del secchio, questo secchio che possiamo riempire di qualunque cosa, ma che in un giorno qualunque saremo chiamati a gettare via con un calcio, per sempre.
All'improvviso, Alice si è ritrovata un secchio ristretto, poco capiente, fragilissimo. Ma non per questo si è rassegnata a lasciarlo vuoto. Anzi, ha fatto di tutto per stiparlo fino all'orlo, pressandoci dentro i desideri di una vita, per quanto breve, per quanto ingiusta…
Non mi resta molto tempo, vediamo di non scordare niente: prima di tutto i miei miti, vorrei conoscerli di persona, magari non proprio tutti, diciamo gli imperdibili, Paul McCartney per primo, poi Robbie Williams e i Take That. Che altro: ma sì, partecipare alla prom night, la famosa serata di gala organizzata dai licei americani, e magari dare vita a un'associazione benefica che aiuti in futuro le ragazze con il mio stesso destino. Sì, così può andare. Però mi voglio concedere anche una sfizio, perché non c'è vita degna senza neppure una fantasia bambina: mi piacerebbe un sacco vedere da vicino le balene, mentre nuotano nei loro mari….Sabato sera la piccola ingorda delle emozioni se n'è andata, ma non prima di aver comunicato a tutto il mondo, perché ormai tutto il mondo seguiva via Internet la sua bellissima corsa, le parole più attese: ce l'ho fatta, la mia lista del secchio è realizzata, ho esaudito tutti i sogni.
Alice ha chiuso gli occhi serena, mentre i suoi genitori e l'inseparabile sorella si premuravano di comunicarlo ai milioni di amici sparsi ovunque, fossero star della canzone o anonimi ragazzi di estremi continenti, in tanti impegnati a rendere possibili i desideri: «Il nostro angelo ha chiuso le ali. Siamo devastati. Da ora in poi la nostra vita non potrà più essere la stessa».Chi voglia versare qualche lacrima vera, un po' diversa da quelle che scorrono a gettone nella televisione delle carrambate e delle liti sentimentali, può farsi un giro sul blog «AlicePyne». Vi si leggono i passi più significativi della storia, nonché tanti dialoghi edificanti con gente di ogni dove. Soprattutto, vi si trova questo motto personale, lanciato come esclamazione assordante: «You only have one life: live it!», hai una sola vita, vivila!
È un grido più forte di ogni male, di ogni destino infame, più forte della stessa morte. È la conferma che una vita non si misura in anni, ma in densità. Non è indispensabile avere il secchio della Montalcini, capiente più di cent'anni, per lasciare un'impronta sul mondo. Ne basta uno minuscolo, purchè senza vuoti, riempito bene: di pensiero, di sogni, e dell'inguaribile voglia di vivere. Anche Alice, come la Montalcini, certamente ora riposa nel paradiso delle indimenticabili, grandi donne.

 font:http://www.ilgiornale.it/news/interni/874956.html