In
un mondo diverso, Tommy sarebbe il miglior figlio possibile. A 15 anni
appena compiuti, è già grande, grosso e instancabile, a patto di
affidargli la missione giusta. «Sono sicuro che, con una lancia in mano,
sarebbe un eccellente cacciatore», sostiene il papà, lo scrittore e
giornalista Gianluca Nicoletti. Subito, però, si corregge: «Il
guaio è che non viviamo più in una società tribale – dice –, tutto è
diventato molto più complesso e questa complessità rappresenta un
problema per un ragazzo autistico come lui». Chi segue Nicoletti nelle
sue scorribande fra radio, blog e social network conosce già, almeno in
parte, la storia di Tommy, il gigante gentile e silenzioso che ha
rivoluzionato la vita di famiglia. Adesso in Una notte ho sognato che parlavi (Mondadori,
pagine 180, euro 16,50) il racconto del padre è completo, diretto,
senza reticenze. Il libro viene presentato oggi alle 17 a Roma presso la
sede del Centro Nazionale delle Ricerche (piazzale Aldo Moro 7), da un
gruppetto di relatori che comprende Stefano Vicari, neuropsichiatra
infantile al Bambin Gesù, l’ingegnere biomedico Giovanni Pioggia, e
Annalisa Minetti. Proprio lei, la cantante, l’atleta paralimpica. «L’ho
voluta con noi per due motivi – spiega Nicoletti –. Il primo è che
mentre Tommy nasceva io ero a Sanremo, per seguire il Festival da cui
Annalisa uscì vincitrice. La seconda ragione è che anche lei ha un
fratello autistico, ora trentenne, di cui continua a occuparsi con molta
tenerezza».
Ma lei, Nicoletti, che cosa sapeva dell’autismo prima che la sindrome si manifestasse in Tommy?
«Molto poco, come la maggior parte delle persone. Avevo visto Rain Man e mi ero fatto l’idea che esistessero questi individui un po’ introversi, ma bravissimi in matematica. Non mi rendevo conto che esistessero ragazzi com’è oggi mio figlio, né di quanto fosse diffuso il problema. L’autismo, infatti, è la prima causa di handicap nel nostro Paese, eppure è una condizione che continua a essere vissuta in una solitudine terribile specie da parte dei genitori».
Dal libro però emerge l’immagine di una sorta di comunità.
«Il rischio è che la comunità ci sia, sì, ma che aggreghi persone isolate, per le quali la presenza di un autistico in casa rappresenta ancora motivo di vergogna. In questo senso, la prima alleanza che va rinsaldata è quella all’interno della coppia, la cui tenuta è messa duramente alla prova. Per non parlare dei fratelli, che spesso non sanno come spiegare la situazione agli amici. Con mia moglie e con l’altro nostro figlio, Filippo, abbiamo costruito un buon equilibrio, ma il fatto di entrare a contatto con la sofferenza di tante altre persone mi ha fatto capire che così non basta, non possiamo accontentarci di una soluzione che metta al riparo soltanto noi. Così è nata l’idea di Insettopia».
Prego?
«Zeta la formica, non so se ha presente. È il cartone animato che Tommy in assoluto predilige. Buona parte della trama è occupata dalla ricerca di questa terra promessa degli insetti, che in realtà è un angolo di prato ai limiti di Central Park. Ecco, anche i ragazzi autistici avrebbero bisogno della loro Insettopia: un luogo ordinato, ben organizzato e gestito da personale competente, nel quale convogliare le risorse, anche economiche, che al momento sono disperse in una serie di interventi effimeri e, in fin dei conti, di scarsissimo aiuto per le famiglie».
E si può fare?
«In alcune città, come Novara, si fa già. A Roma abbiamo costituito una piccola onlus, Sguardi Laterali, che ha iniziato a dialogare con le istituzioni. A dirla tutta, io avrei anche adocchiato un’area dismessa del Bioparco, che sarebbe perfetta per il progetto. Ma non ne faccio una questione personale. I genitori degli autistici non lavorano mai per se stessi. Al contrario lavorano per quando loro, i genitori, non ci saranno più. L’obiettivo, in un certo senso, è lo stesso di ogni altro padre, di ogni altra madre: fare in modo che il figlio raggiunga l’autonomia. Solo che l’autonomia di un autistico è una faccenda piuttosto delicata. Significa, per esempio, immaginare un futuro in cui tuo figlio, ormai adulto, non sia costretto a giocare con i cubetti colorati, ma possa impegnarsi in attività più adatte alla sua intelligenza».
Sempre di padri e figli si tratta, però.
«Sì, ne sono convinto. Per me essere il papà di Tommy significa essere semplicemente padre, in un rapporto ridotto all’essenziale, spogliato di tutte le sovrastrutture che, di solito, emergono nell’adolescenza. L’antagonismo o addirittura l’invidia. Qui tutto è più scarno, ma anche più profondo E questo, tra l’altro, vale anche per la comunicazione».
Il pregiudizio è che gli autistici non comunichino.
«Comunicano, invece, ma in maniera molto selettiva. Hanno un unico scopo, che è il loro benessere. Ogni interferenza, compreso il disagio di chi si trova accanto a loro, è motivo di ansia. Può darsi che la mia sia la deformazione di chi, da molti anni, si occupa dei fenomeni di comunicazione “totale”, dalla televisione a Internet, però a volte mi sembra che le persone come Tommy siano l’avanguardia di un mondo in cui, per contrastare lo stress generato dall’attuale sovrabbondanza di informazioni, si decida finalmente di scegliere, si chiuda qualche canale con l’esterno e ci si accontenti di quello che è davvero e sempre necessario».
«Molto poco, come la maggior parte delle persone. Avevo visto Rain Man e mi ero fatto l’idea che esistessero questi individui un po’ introversi, ma bravissimi in matematica. Non mi rendevo conto che esistessero ragazzi com’è oggi mio figlio, né di quanto fosse diffuso il problema. L’autismo, infatti, è la prima causa di handicap nel nostro Paese, eppure è una condizione che continua a essere vissuta in una solitudine terribile specie da parte dei genitori».
Dal libro però emerge l’immagine di una sorta di comunità.
«Il rischio è che la comunità ci sia, sì, ma che aggreghi persone isolate, per le quali la presenza di un autistico in casa rappresenta ancora motivo di vergogna. In questo senso, la prima alleanza che va rinsaldata è quella all’interno della coppia, la cui tenuta è messa duramente alla prova. Per non parlare dei fratelli, che spesso non sanno come spiegare la situazione agli amici. Con mia moglie e con l’altro nostro figlio, Filippo, abbiamo costruito un buon equilibrio, ma il fatto di entrare a contatto con la sofferenza di tante altre persone mi ha fatto capire che così non basta, non possiamo accontentarci di una soluzione che metta al riparo soltanto noi. Così è nata l’idea di Insettopia».
Prego?
«Zeta la formica, non so se ha presente. È il cartone animato che Tommy in assoluto predilige. Buona parte della trama è occupata dalla ricerca di questa terra promessa degli insetti, che in realtà è un angolo di prato ai limiti di Central Park. Ecco, anche i ragazzi autistici avrebbero bisogno della loro Insettopia: un luogo ordinato, ben organizzato e gestito da personale competente, nel quale convogliare le risorse, anche economiche, che al momento sono disperse in una serie di interventi effimeri e, in fin dei conti, di scarsissimo aiuto per le famiglie».
E si può fare?
«In alcune città, come Novara, si fa già. A Roma abbiamo costituito una piccola onlus, Sguardi Laterali, che ha iniziato a dialogare con le istituzioni. A dirla tutta, io avrei anche adocchiato un’area dismessa del Bioparco, che sarebbe perfetta per il progetto. Ma non ne faccio una questione personale. I genitori degli autistici non lavorano mai per se stessi. Al contrario lavorano per quando loro, i genitori, non ci saranno più. L’obiettivo, in un certo senso, è lo stesso di ogni altro padre, di ogni altra madre: fare in modo che il figlio raggiunga l’autonomia. Solo che l’autonomia di un autistico è una faccenda piuttosto delicata. Significa, per esempio, immaginare un futuro in cui tuo figlio, ormai adulto, non sia costretto a giocare con i cubetti colorati, ma possa impegnarsi in attività più adatte alla sua intelligenza».
Sempre di padri e figli si tratta, però.
«Sì, ne sono convinto. Per me essere il papà di Tommy significa essere semplicemente padre, in un rapporto ridotto all’essenziale, spogliato di tutte le sovrastrutture che, di solito, emergono nell’adolescenza. L’antagonismo o addirittura l’invidia. Qui tutto è più scarno, ma anche più profondo E questo, tra l’altro, vale anche per la comunicazione».
Il pregiudizio è che gli autistici non comunichino.
«Comunicano, invece, ma in maniera molto selettiva. Hanno un unico scopo, che è il loro benessere. Ogni interferenza, compreso il disagio di chi si trova accanto a loro, è motivo di ansia. Può darsi che la mia sia la deformazione di chi, da molti anni, si occupa dei fenomeni di comunicazione “totale”, dalla televisione a Internet, però a volte mi sembra che le persone come Tommy siano l’avanguardia di un mondo in cui, per contrastare lo stress generato dall’attuale sovrabbondanza di informazioni, si decida finalmente di scegliere, si chiuda qualche canale con l’esterno e ci si accontenti di quello che è davvero e sempre necessario».
Alessandro Zaccuri
font:http://www.avvenire.it/Cultura/Pagine/nicoletti-cosi-comunica-mio-figlio-autistico.aspx