Papà, dove sei? L'importanza della figura paterna per i bambini

La figura paterna è punto di riferimento etico e di traenza sociale per ogni adolescente. Se viene meno tale riferimento il cammino dei figli si fa incerto provocando inquietudine e smarrimento. I consigli della psicopedagogista Evi Crotti per i lettori e i genitori de ilGiornale.it  

 
La figura paterna è punto di riferimento etico e di traenza sociale per ogni adolescente. Se viene meno tale riferimento, se la figura paterna si offusca o se il suo ruolo diventa fragile o manca del tutto, il cammino dei figli si fa incerto provocando in loro inquietudine e smarrimento. Questa sembra essere una condizione di questo periodo storico che ci deve rendere attenti osservatori della figura paterna indebolita o che sta perdendo quella forza virile, indispensabile per la costruzione dell'identità, della stima e della fiducia verso se stessi e verso la Vita. L'adolescente sente la necessità di affidarsi a lui, di poter conversare e di guardarlo in volto senza timore e senza riserve, per trovare sempre nuove rassicuranti conferme. Si tratta di un compito spesso arduo che spetta in prima persona al padre. La sua è una figura che rappresenta agli occhi del figlio l'universo maschile in cui dovrebbe predominare la norma, la legge e, soprattutto, l'indipendenza dai vincoli ricattatori e incestuosi, che stanno alla base della disarmonia nello sviluppo. Il padre è equiparabile a un rifugio sicuro.
Se la figura paterna è così necessaria per acquisire una propria identificazione, spinta indispensabile per l'entrata nel sociale, perché tanti ragazzi hanno un vero e proprio rifiuto nel relazionarsi con la figura paterna? Lo si nota in alcune situazioni di protesta sociale, a volte anche violenta, dove l'autorità andrebbe intesa come controfigura del padre e vissuta come avversario da combattere o da rifuggire; un rifiuto che sa tanto di richiesta esasperata dovuta alla sua mancanza.
La sicurezza che deriva da una figura paterna stabile e affidabile è assai importante per lo sviluppo relazionale del ragazzo. Infatti, è la sua la figura più adatta a fare da guida e da spalla per affrontare la realtà e confrontarsi con il mondo esterno, contribuendo così a formare nella sua mente un modello di riferimento diverso da quello materno primigenio.
La figura paterna rappresenta simbolicamente la legge e l’autorità, parola latina "auctoritas" che deriva dalla radice del verbo augeo, che significa "far crescere". Egli è la norma, la mano forte che protegge, la roccia che non crolla, il braccio forte che stringe e che ognuno di noi, sin dall'infanzia, ha portato dentro di sé e interiorizzandolo come modello. E’ una sorta di tavola delle leggi scolpita dentro di noi.
I disegni che andremo a visionare ci parlano dell'importanza della figura paterna. Tutti i disegni (guarda la gallery) riflettono un disagio e un'immaturità emotiva. Evidentemente Maria ha subito un'aggressione psicologica che l'ha resa fragile e reattiva insieme; una situazione che richiede al mondo adulto comprensione e attenzione dei suoi bisogni reali per evitare la destrutturazione della personalità.
Con l'aiuto della grafologia, interpretando correttamente l’evoluzione del disegno e della scrittura, potremo aiutare la madre e le insegnanti a trovare con pazienza una strada che permetta almeno di chetare la forte aggressività. La ragazza, infatti, è stata indirizzata verso la scherma e in questo modo ha trovato la possibilità da un lato d'investire l'eccesso di tensione e l'aggressività in un'attività fisica e dall'altro di scoprire motivazioni che le permettono di credere in un possibile miglioramento.
L'utilizzo dell'interpretazione su base psicodinamica del disegno nell'età evolutiva è di aiuto all'educatore, all'insegnante e al genitore per capire le vere ragioni dei disagi, purtroppo sempre più frequenti, che la famiglia può provocare.
La conoscenza è, come sostiene Albert Einstein, "il bene più prezioso che l'uomo possa avere".
Evi Crotti


Psicopedagogista, scrittrice e fondatrice della scuola di grafologia morettina di Milano che tuttora dirige

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Nicoletti: «Così comunica mio figlio autistico»

In un mondo diverso, Tommy sarebbe il miglior figlio possibile. A 15 anni appena compiuti, è già grande, grosso e instancabile, a patto di affidargli la missione giusta. «Sono sicuro che, con una lancia in mano, sarebbe un eccellente cacciatore», sostiene il papà, lo scrittore e giornalista Gianluca Nicoletti. Subito, però, si corregge: «Il guaio è che non viviamo più in una società tribale – dice –, tutto è diventato molto più complesso e questa complessità rappresenta un problema per un ragazzo autistico come lui». Chi segue Nicoletti nelle sue scorribande fra radio, blog e social network conosce già, almeno in parte, la storia di Tommy, il gigante gentile e silenzioso che ha rivoluzionato la vita di famiglia. Adesso in Una notte ho sognato che parlavi (Mondadori, pagine 180, euro 16,50) il racconto del padre è completo, diretto, senza reticenze. Il libro viene presentato oggi alle 17 a Roma presso la sede del Centro Nazionale delle Ricerche (piazzale Aldo Moro 7), da un gruppetto di relatori che comprende Stefano Vicari, neuropsichiatra infantile al Bambin Gesù, l’ingegnere biomedico Giovanni Pioggia, e Annalisa Minetti. Proprio lei, la cantante, l’atleta paralimpica. «L’ho voluta con noi per due motivi – spiega Nicoletti –. Il primo è che mentre Tommy nasceva io ero a Sanremo, per seguire il Festival da cui Annalisa uscì vincitrice. La seconda ragione è che anche lei ha un fratello autistico, ora trentenne, di cui continua a occuparsi con molta tenerezza».

Ma lei, Nicoletti, che cosa sapeva dell’autismo prima che la sindrome si manifestasse in Tommy?
«Molto poco, come la maggior parte delle persone. Avevo visto Rain Man e mi ero fatto l’idea che esistessero questi individui un po’ introversi, ma bravissimi in matematica. Non mi rendevo conto che esistessero ragazzi com’è oggi mio figlio, né di quanto fosse diffuso il problema. L’autismo, infatti, è la prima causa di handicap nel nostro Paese, eppure è una condizione che continua a essere vissuta in una solitudine terribile specie da parte dei genitori».
Dal libro però emerge l’immagine di una sorta di comunità.
«Il rischio è che la comunità ci sia, sì, ma che aggreghi persone isolate, per le quali la presenza di un autistico in casa rappresenta ancora motivo di vergogna. In questo senso, la prima alleanza che va rinsaldata è quella all’interno della coppia, la cui tenuta è messa duramente alla prova. Per non parlare dei fratelli, che spesso non sanno come spiegare la situazione agli amici. Con mia moglie e con l’altro nostro figlio, Filippo, abbiamo costruito un buon equilibrio, ma il fatto di entrare a contatto con la sofferenza di tante altre persone mi ha fatto capire che così non basta, non possiamo accontentarci di una soluzione che metta al riparo soltanto noi. Così è nata l’idea di Insettopia».
Prego?
«Zeta la formica, non so se ha presente. È il cartone animato che Tommy in assoluto predilige. Buona parte della trama è occupata dalla ricerca di questa terra promessa degli insetti, che in realtà è un angolo di prato ai limiti di Central Park. Ecco, anche i ragazzi autistici avrebbero bisogno della loro Insettopia: un luogo ordinato, ben organizzato e gestito da personale competente, nel quale convogliare le risorse, anche economiche, che al momento sono disperse in una serie di interventi effimeri e, in fin dei conti, di scarsissimo aiuto per le famiglie».
E si può fare?
«In alcune città, come Novara, si fa già. A Roma abbiamo costituito una piccola onlus, Sguardi Laterali, che ha iniziato a dialogare con le istituzioni. A dirla tutta, io avrei anche adocchiato un’area dismessa del Bioparco, che sarebbe perfetta per il progetto. Ma non ne faccio una questione personale. I genitori degli autistici non lavorano mai per se stessi. Al contrario lavorano per quando loro, i genitori, non ci saranno più. L’obiettivo, in un certo senso, è lo stesso di ogni altro padre, di ogni altra madre: fare in modo che il figlio raggiunga l’autonomia. Solo che l’autonomia di un autistico è una faccenda piuttosto delicata. Significa, per esempio, immaginare un futuro in cui tuo figlio, ormai adulto, non sia costretto a giocare con i cubetti colorati, ma possa impegnarsi in attività più adatte alla sua intelligenza».
Sempre di padri e figli si tratta, però.
«Sì, ne sono convinto. Per me essere il papà di Tommy significa essere semplicemente padre, in un rapporto ridotto all’essenziale, spogliato di tutte le sovrastrutture che, di solito, emergono nell’adolescenza. L’antagonismo o addirittura l’invidia. Qui tutto è più scarno, ma anche più profondo E questo, tra l’altro, vale anche per la comunicazione».
Il pregiudizio è che gli autistici non comunichino.
«Comunicano, invece, ma in maniera molto selettiva. Hanno un unico scopo, che è il loro benessere. Ogni interferenza, compreso il disagio di chi si trova accanto a loro, è motivo di ansia. Può darsi che la mia sia la deformazione di chi, da molti anni, si occupa dei fenomeni di comunicazione “totale”, dalla televisione a Internet, però a volte mi sembra che le persone come Tommy siano l’avanguardia di un mondo in cui, per contrastare lo stress generato dall’attuale sovrabbondanza di informazioni, si decida finalmente di scegliere, si chiuda qualche canale con l’esterno e ci si accontenti di quello che è davvero e sempre necessario».

Alessandro Zaccuri 
 
font:http://www.avvenire.it/Cultura/Pagine/nicoletti-cosi-comunica-mio-figlio-autistico.aspx

IL VERO VOLTO DELLA CHIESA NEL SORRISO DI UNA RAGAZZA. CHIARA E IL CONCLAVE

I mass media continuano a non capire la Chiesa, anche alla vigilia del prossimo Conclave. Per comprenderne il mistero bisognerebbe – per esempio – leggere un libro straordinario, “Solo l’amore resta” (Piemme), dove Chiara Amirante – 45 anni circa – racconta la sua storia. I giornali quasi non sanno chi sia Chiara, ma lo sanno benissimo migliaia di persone che per l’incontro con lei sono usciti dal buio e si sono convertiti (a me ricorda un po’ santa Caterina, un po’ Madre Teresa, ma lei respingerebbe con un sorriso e una battuta ironica il paragone).Anche il Papa conosce bene Chiara (l’ha nominata consultrice del Pontificio consiglio per la nuova evangelizzazione) e così pure molti importanti cardinali che la stimano davvero (il cardinale Ruini, da Vicario di Roma, ha aiutato e sostenuto la sua opera fin dall’inizio, quando lei era giovanissima).Invece i media no. Non capiscono cosa è la Chiesa, sebbene Benedetto XVI non si stanchi di indicare la presenza viva e misteriosa di Gesù Cristo.Ratzinger fin da cardinale continuava ad affermare che la Chiesa è “semper reformanda” (deve essere sempre rinnovata), ma sottolineando che è sempre stata rinnovata non dai riformatori (che hanno fatto disastri), ma dai santi.
LA STORIA INSEGNA
I media non lo capiscono. Se fossero esistiti – per esempio – nel XVI secolo, tv, internet e giornali avrebbero raccontato solo trame, corruttele, nepotismi, prostitute e altre cose simili. E avrebbero diagnosticato che la Chiesa stava morendo. Intervistando ogni giorno Lutero.In effetti nessuna istituzione umana sarebbe mai sopravvissuta a tanta “sporcizia”.Invece la Chiesa uscì da quel secolo con una rinnovata giovinezza, con uno slancio e una bellezza travolgente e attraversa i secoli. Perché non è una istituzione umana, ma letteralmente una “cosa dell’altro mondo”.Per capirlo i media nel XVI secolo avrebbero dovuto spostare i riflettori su una quantità immensa di santi che, proprio in quegli anni, il Signore fece sgorgare nel giardino della sua Chiesa.Ne cito solo alcuni (ma ognuno di loro è stato un poema e un ciclone): Carlo Borromeo, Filippo Neri, Francesco di Paola, Luigi Gonzaga, Francesco Saverio, Ignazio di Loyola, Giovanni della Croce, Giovanni d’Avila, Teresa d’Avila, Tommaso Moro, Juan Diego, John Fisher, Paolo Miki, Caterina de’ Ricci, Pietro Canisio, Stanislao Kostka, Edmund Campion.Per questo dico che oggi – per capire qualcosa del futuro della Chiesa – bisognerebbe andare a cercare e a raccontare storie come quella di Chiara Amirante.Il suo libro è un abisso di luce. Eppure racconta, con una prosa semplice, una storia dei nostri anni, di una ragazza che è ancora oggi una giovane donna, del tutto normale.
CHIARA
Un flash della sua storia. E’ una notte d’inverno del 1991, verso le tre. Una graziosa venticinquenne in motorino, a Roma, parte dalla stazione Termini e percorre un viale verso l’Appia quando viene avvicinata da un furgone che le taglia la strada per farla fermare.Le intenzioni dell’omaccione non lasciano dubbi e vengono dichiarate alla giovane dal finestrino. Lei, che è – come avrete capito – Chiara, accelera, scappa, cerca di darsi coraggio cantando, dice a se stessa (“ma no, non sono sola, il Signore è con me”).Poi, alla fine, lo guarda negli occhi e gli dice: “hai trovato la persona sbagliata, perché io ho consacrato la mia vita a Dio”.Sembrò che il tipaccio avesse avuto una mazzata in testa. Infatti si ferma più avanti con le mani alzate e – quasi intimorito – le dice: “Perdonami. Ma davvero tu hai consacrato la tua vita a Dio? Come è possibile? Una bella ragazza come te… Non ci posso davvero credere”.Ancor più sconvolto sarebbe stato se avesse saputo da dove veniva Chiara. Perché, così indifesa, o meglio, difesa dagli angeli, stava andando ogni notte nei sottopassaggi della stazione Termini che, in quegli anni, erano davvero gironi infernali, pericolosissimi per chiunque (tanto più per una ragazza sola).Ma come e perché Chiara si era lanciata in quell’avventura? Lo racconta nel suo libro e tutto sembra semplice e normale, ma in realtà i fatti che mette in fila sono sconvolgenti. Provo a enuclearli alla meglio.
COME DIO CHIAMA
Chiara cresce in una famiglia che vive nel movimento dei Focolari di Chiara Lubich. Fin dall’inizio attorno a lei – anche all’università di Roma – si raccolgono tanti giovani. Poco più che ventenne contrae una malattia gravissima agli occhi – l’uveite – che, oltre a dolori tremendi per quattro anni, secondo la diagnosi di tutti gli specialisti, la porterà presto alla cecità totale.Nonostante questa prova tremenda il cammino spirituale di Chiara si approfondisce. E perfino la sua gioia. Il suo sobrio racconto fa intuire esperienze che – più che sogni – hanno tutto l’aspetto di esperienze soprannaturali.Così, mentre matura in lei la vocazione ad andare da sola a cercare gli ultimi, i più derelitti e disperati (e il “popolo della notte” della Stazione Termini è il luogo che ha nel cuore), d’improvviso – dopo un pellegrinaggio al santuario del Divino Amore – le viene donata una guarigione improvvisa, totale e del tutto inspiegabile per i medici.Una guarigione che lei in fondo non aveva neanche chiesto, ma che interpreta come un segno: deve intraprendere subito la sua strada. E così diventa l’angelo degli inferni metropolitani. Si aggira col suo sorriso in luoghi pericolosissimi e sempre si sente protetta.Finché decide lei stessa di andare a vivere con questa povera gente, tra tossicodipendenti, malati di Aids, ragazze prostitute, derelitti al limite del suicidio, ex carcerati, gente che aveva frequentato sette sataniste, con tutte le conseguenze…I fatti che accadono attorno a Chiara sono sconvolgenti. Veramente si rende visibile la potenza dello Spirito Santo. Sono pagine tutte le leggere. Ma Chiara è chiamata ad andare avanti in quel cammino.
NUOVI ORIZZONTI
Medjugorje è un altro dei suoi luoghi del cuore. E lì s’illuminano i nuovi passi di Chiara. Nasce “Nuovi orizzonti”, l’ideale di una comunità dove si vive con semplicità e integralità il Vangelo.C’è la freschezza di ogni inizio, in tutti i tempi, dai primi amici di Gesù a Francesco d’Assisi a Ignazio di Loyola…. C’è l’abbandono totale al Signore e la scelta radicale, da parte di Chiara e dei suoi amici, dei voti di povertà, castità, obbedienza e – in seguito – di gioia.Questo è solo l’inizio dell’avventura di Chiara, ma è nell’origine che si coglie davvero l’essenza di qualunque cosa. Oggi mettere in file i numeri di ciò che è nato da Chiara fa impressione: 174 centri di accoglienza e di formazione, 152 Equipe di servizio, 5 Cittadelle Cielo in costruzione in diversi continenti, più di 250 mila “Cavalieri della luce” che – come dice Chiara – sono impegnati a portare dovunque, nel mondo, “la rivoluzione dell’amore”.Ma tutto questo – che forse è quello che più interesserebbe i media – in realtà è solo un sovrappiù rispetto all’essenziale. Che è l’intima unione spirituale di Chiara con Gesù, la sua toccante umanità, la sua semplicità, la sua gioia contagiosa (pur dentro sofferenze fisiche tuttora molto pesanti).I “segni” che accadono attorno a Chiara poi fanno sperimentare davvero la vicinanza del Signore.Quella “Chiesa gerarchica” che oggi spesso viene messa sulla graticola dai media fin dall’inizio ha accolto Chiara come una figlia amatissima e ha riconosciuto e valorizzato il suo carisma.Oggi incontrando Chiara, leggendo la sua storia, guardando il suo volto e i tanti giovani che accanto a lei hanno trovato il senso della vita, viene da concludere che i media non raccontano cosa è davvero la Chiesa. Non la capiscono.Forse non la vogliono capire.Già i primi apologeti cristiani, durante le persecuzioni, dicevano: “i cristiani chiedono solo questo, di essere conosciuti prima di essere condannati”. Anche oggi sembra che non si conoscano i cristiani. Che sono “una cosa dell’altro mondo” in questo mondo.

Antonio Socci
Da “Libero”, 26 febbraio 2013

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L'azzardo che fa morire.Uccide la madre per i soldi


 Vittima del videopoker è diventata carnefice della sua stessa madre. Per soddisfare il demone del gioco che si era impossessato di lei non ha esitato a uccidere una donna di 90 anni per rubare una catenina d’oro con cui pagare il vizio che le faceva trascorrere le ore davanti a una infernale macchinetta mangiasoldi. Maria Cristina Filippini è da ieri mattina rinchiusa nel carcere di Piacenza. C’è entrata dopo aver ripetuto al magistrato quello che già aveva confessato ai carabinieri: ha ucciso sua madre Giuliana Bocenti nella sua abitazione di Castel San Giovanni per sottrarle un piccolo monile che portava al collo da rivendere in un Compro Oro poco lontano da casa e con i soldi ricavati continuare a giocare. Una vicenda che getta, se ancora ce ne fosse bisogno, una luce sinistra sul gioco d’azzardo e sulle conseguenze che può avere sulle persone più fragili.Alla pista della rapina da parte di qualche sconosciuto o di una banda, i carabinieri del nucleo investigativo di Piacenza guidati dal capitano Rocco Papaleo, non avevano dato molto credito fin dall’inizio. Troppe le stranezze. A partire dalla porta d’ingresso che non presentava nessun segno di scasso per non parlare della camera da letto, l’unica stanza dell’appartamento di via Mameli ad essere messa a soqquadro come se l’assassino sapesse che negli altri locali non c’era nulla di valore. Infine l’omicidio stesso. Perché, si sono chiesti gli uomini del capitano Papaleo uccidere l’anziana? Di sicuro non poteva reagire e opporsi alla rapina. Il motivo più credibile era proprio quello di tapparle la bocca, di non permetterle di fare il nome di chi l’aveva rapinata.Per questo le indagini dal 4 febbraio scorso, non si erano dirette verso improbabili bande di rapinatori, ma avevano puntato sulla stretta cerchia della pensionata, parenti e badanti. E questo mentre la quarantottenne Maria Cristina - sposata con 3 figlie - spiegasse a chiunque avesse voglia di stare ad ascoltarla, quanto la madre - che l’aveva adottata quando aveva solo un anno - si fidasse di chiunque aprendo senza timore la porta di casa. Dichiarazioni rese anche alla televisione e che hanno contribuito non poco a metterla nei guai. La proprietaria del Compro Oro a cui aveva venduto la collanina (ricavato 280 euro), l’ha infatti riconosciuta e ha avvertito gli investigatori. I quali, da parte loro, avevano già raccolto una serie di testimonianze sempre più precise sul vizio della donna. Chi la conosceva, infatti, sapeva della sua ossessione per il gioco d’azzardo. Ore e ore passate davanti alle macchinette del videopoker consumando fino all’ultimo i soldi che aveva in tasca e, proprio per questo, sempre alla ricerca di nuovi spiccioli da bruciare sull’ara di un sogno impossibile.È stata così che venerdì pomeriggio la donna è stata chiamata in caserma a Piacenza e qui le è stata mostrata la catenina recuperata al Compro Oro. In un primo tempo ha cercato di negare poi, incalzata da contestazioni sempre più precise, ha ammesso la colpa. Prima con i militari poi anche davanti al pubblico ministero, anche se ha dato la colpa a non meglio chiariti dissidi che c’erano tra lei e l’anziana. Quasi si vergognasse di ammettere che era diventata assassina per una partita di poker in più.



Davide Parozzi 
 
font: http://www.avvenire.it/Cronaca/Pagine/uccidelamadrepc.aspx

FAMIGLIA Con i padri separati in cerca di speranza

È possibile coltivare la speranza anche quando tutto sembra perduto e l’unica voce è un grido di dolore che sale dal profondo per dare sfogo al delirio in cui si è precipitati? È dura, a volte terribilmente dura, ma è possibile. Lo dimostrano le storie di padri separati raccolte nel volume “Il delirio e la speranza” (Erga edizioni), che hanno in comune l’angoscia di uomini che, dopo la separazione, sono stati strappati dall’affetto dei figli e, in alcuni casi, hanno dovuto aspettare anni per poterli riabbracciare.
«Fa veramente impressione – scrive nell’introduzione Miriam Pastorino, curatrice del volume – vedere con quanta leggerezza e con quanta ostinazione certe madri costringano di fatto la prole nella condizione dell’orfano di padre. Questi racconti – prosegue – vogliono far riflettere sugli inutili dolori innescati da un malinteso senso di autoaffermazione della donna, solo parzialmente giustificato dalla sua storica condizione d’inferiorità». Alla fine, sottolinea la curatrice dell’opera, con il loro comportamento, queste madri diventano esse stesse «strumenti d’angoscia e infelicità per i loro figli».
Una deriva che, purtroppo, coinvolge un numero molto alto di minori, “contesi” da adulti che, troppo impegnati ad odiarsi (come ben testimoniano alcune delle storie raccontate nel libro), dimenticano di essere anche genitori. Una condizione che, invece, non termina con il venir meno del legame matrimoniale.
«L’unico modo per dare un senso di speranza anche a vicende dolorose, come la fine di un matrimonio, è tornare a volersi bene». Così ha fatto Emanuele Scotti, autore di una delle storie de “Il delirio e la speranza”, riuscito a riemergere, persino rafforzato, da un’esperienza di separazione. Genovese, 48 anni, Scotti è stato per anni vice-presidente dell’associazione Famiglie separate cristiane, realtà che si pone accanto ai separati per sostenerli nei momenti di massima crisi. Che non sono certo mancati nemmeno nella vicenda di Scotti, separato da undici anni, dopo un matrimonio durato sette e padre di un ragazzo oggi quindicenne.
«Per me è stata fondamentale la riscoperta della fede – racconta –. Nel dolore della separazione, mi ha aiutato a vedere l’altro non come un nemico da abbattere a tutti i costi, ma come una persona con cui cercare comunque un percorso di dialogo e confronto».
Un cammino che Scotti ha fondato su convinzioni religiose profonde ma che è percorribile anche da chi non è sostenuto dal dono della fede. «In fondo – ricorda il genovese – si tratta di atteggiamenti profondamente umani che aiutano a recuperare rapporti che si considerava perduti per sempre. Riuscire a trovare cinque minuti di dialogo accettabile è già un primo passo importante verso la normalizzazione di un rapporto; fa bene agli stessi ex-coniugi ma, soprattutto, ai loro figli».
Sempre l’esperienza di Scotti suggerisce che non servono grandi discorsi o gesti eclatanti. A volte basta riuscire a dire alla propria ex-moglie «Sei una brava mamma», per cominciare ad abbattere quel muro di incomunicabilità, se non di aperta conflittualità, che spesso separa chi vede frantumare il proprio progetto matrimoniale.
«Compiere questi gesti e dire queste parole – conclude Emanuele Scotti – non è solo un segno di rispetto per il proprio ex-coniuge, ma anche e soprattutto un grande gesto d’amore per i figli, il cui equilibrio è messo a dura prova dalla separazione dei genitori. Certo, in alcuni casi anche queste attenzioni non producono il risultato sperato e il riavvicinamento non avviene. Ma chi le mette in atto stia sicuro: questi gesti d’amore non andranno perduti».

Paolo Ferrarrio 
  font:http://www.avvenire.it/Cronaca/Pagine/con-i-padri-separati-in-cerca-di-speranza.aspx

La spalla del boia

Foto da Teheran. E precipitiamo nella notte, nel dolore, nella preghiera

 L’immagine della Associated Press è di quelle che attanagliano il cuore, e su cui ci si ferma, anche se non lo si vorrebbe, perché già al primo sguardo sai che ne trarrai dolore. Teheran, 21 gennaio, pubblica impiccagione di due giovani accusati di rapina. Dentro una notte senza luci, nera come se non dovesse più sorgere l’alba, solo il flash proietta la sua fredda luce. I condannati, che dimostrano vent’anni, vengono condotti alla forca, accompagnati ciascuno dal proprio boia col volto nascosto da un cappuccio. È un non-volto dunque, una maschera, l’ultima presenza accanto ai condannati.Uno dei prigionieri mostra all’obiettivo, sulla faccia da ragazzo, una smorfia di terrore e di angoscia. Sembra così giovane che, qualsiasi cosa abbia anche fatto, chi guarda si ribella: è ancora più intollerabile giustiziare un ragazzo, che avrebbe tutta la vita per cambiare. (Già però, dietro di lui, sulle spalle del boia si intravede, pronto, il cappio). 
Ma è l’altro condannato, che turba più profondamente. Nella disperazione di chi si vede davanti la morte, appoggia, inerme come un ragazzino, la testa sulla spalla del boia, a domandare, proprio a lui, conforto. E il boia mascherato, il non-volto, non si ritrae, anzi con una mano gli cinge la spalla. Il carnefice sembra avere pietà della vittima, e desiderare, forse, che il suo terribile compito gli sia tolto. C’è una umanità struggente, fra i due, nell’istante catturato dal fotografo; un ritrovarsi, sotto la più feroce legge, per un momento tuttavia fratelli, dentro a una legge anteriore e più grande. Ma tutto questo dura pochi secondi; un regime come quello iraniano non tollererebbe debolezze nei suoi boia. La pubblica conferma di un terrore eretto a sistema è del resto la ragione di quella esecuzione in piazza di due, forse, giovani banditi da strada.
 Intanto il fotografo si è voltato a riprendere il pubblico: una gran folla da stadio, e come allo stadio eccitata, i pugni alzati a domandare vendetta, le facce ansiose che "giustizia" sia fatta. L’eccitazione della folla gela il sangue, e, per contrasto, sottolinea l’istante di pietà del carnefice. Solo tre volti sono del tutto estranei a questa ebbrezza di sangue: quelli di tre donne. 
Dietro alle sbarre che separano la piazza dal patibolo, una ha il volto chino, nascosto nel pianto; una, giovane, si copre la faccia con le mani, per non vedere oltre; una terza, giovanissima, singhiozzante, nel suo strazio ha le fattezze delle donne ai piedi della Croce, nelle tele dei pittori antichi. Una accanto all’altra le tre – sorelle, spose? – testimoni di un antico femminile destino, volti di pietà là dove la violenza e il potere pretendono l’ultima parola. Il fotografo non può o non vuole cogliere l’istante della esecuzione. Solo ci mostra, in un ultimo scatto, notturno, immoto e appeso al cappio, il corpo del ragazzo che s’appoggia alla spalla del boia.
Tre foto che ammutoliscono. Ed è solo, pensi, uno squarcio aperto su quella grande parte di mondo che sfugge generalmente agli obiettivi; è solo una tessera nella ferocia che ogni giorno – noi non vedendo – opera in Siria, o in lontani Paesi africani. Nell’oggi, in questo istante, contemporanea a noi. Come stare davanti a questo male, da cristiani? Nel suo "Diario" Etty Hillesum, giovane ebrea olandese morta ad Auschwitz dopo una sbalorditiva maturazione interiore, scrisse, in una delle notti in cui i suoi amici lasciavano Amsterdam per i campi di raccolta: «Stanotte non si dovrebbe poter chiudere occhio. Si dovrebbe soltanto poter pregare». La notte più grande e atroce era, allora, sul popolo ebraico, sull’Europa, su noi. Ma quante notti, grandi o ignote, o ignorate, scorrono nell’oggi, in regimi di terrore, in genocidi e stragi, lontano dai nostri occhi? Quei tre scatti da Teheran, quei due ragazzi, la folla che urla e aspetta il sangue. Forse anche noi dovremmo, per tutte le notti che non sappiamo, ogni sera, per un momento non distratti, inginocchiarci e pregare.

Marina Corradi

font:http://www.avvenire.it/Commenti/Pagine/LA-SPALLA-DEL-BOIA.aspx

Addio Alice, la ragazza malata morta senza alcun rimpianto

Da sei anni sapeva di essere condannata. Così aveva stilato sul web la lista dei desideri: dall’incontro con i Take That a quello con le balene. Li ha soddisfatti tutti

Alice se n'è andata sabato sera, chiudendo sul nascere una vita brevissima,diciassette anni appena. Con questo nome si sarebbe meritata un suo paese delle meraviglie, come se lo meritano tutte le creature di un'età così fresca, anche quelle che portano un altro nome. Invece le è toccato qualcosa di ben diverso: un linfoma rarissimo e famigerato, detto di Hodgkin, tre casi su centomila e nessuna possibilità di uscirne. Quando le hanno comunicato la condanna aveva quattordici anni. A quel punto, Alice ha ritenuto di doversi costruire in proprio, accelerando un poco le procedure, stringendo di molto i tempi, il personalissimo paese delle meraviglie. Ognuno ha la sua bucket list, si dice dalle sue parti, in Inghilterra: la lista del secchio, questo secchio che possiamo riempire di qualunque cosa, ma che in un giorno qualunque saremo chiamati a gettare via con un calcio, per sempre.
All'improvviso, Alice si è ritrovata un secchio ristretto, poco capiente, fragilissimo. Ma non per questo si è rassegnata a lasciarlo vuoto. Anzi, ha fatto di tutto per stiparlo fino all'orlo, pressandoci dentro i desideri di una vita, per quanto breve, per quanto ingiusta…
Non mi resta molto tempo, vediamo di non scordare niente: prima di tutto i miei miti, vorrei conoscerli di persona, magari non proprio tutti, diciamo gli imperdibili, Paul McCartney per primo, poi Robbie Williams e i Take That. Che altro: ma sì, partecipare alla prom night, la famosa serata di gala organizzata dai licei americani, e magari dare vita a un'associazione benefica che aiuti in futuro le ragazze con il mio stesso destino. Sì, così può andare. Però mi voglio concedere anche una sfizio, perché non c'è vita degna senza neppure una fantasia bambina: mi piacerebbe un sacco vedere da vicino le balene, mentre nuotano nei loro mari….Sabato sera la piccola ingorda delle emozioni se n'è andata, ma non prima di aver comunicato a tutto il mondo, perché ormai tutto il mondo seguiva via Internet la sua bellissima corsa, le parole più attese: ce l'ho fatta, la mia lista del secchio è realizzata, ho esaudito tutti i sogni.
Alice ha chiuso gli occhi serena, mentre i suoi genitori e l'inseparabile sorella si premuravano di comunicarlo ai milioni di amici sparsi ovunque, fossero star della canzone o anonimi ragazzi di estremi continenti, in tanti impegnati a rendere possibili i desideri: «Il nostro angelo ha chiuso le ali. Siamo devastati. Da ora in poi la nostra vita non potrà più essere la stessa».Chi voglia versare qualche lacrima vera, un po' diversa da quelle che scorrono a gettone nella televisione delle carrambate e delle liti sentimentali, può farsi un giro sul blog «AlicePyne». Vi si leggono i passi più significativi della storia, nonché tanti dialoghi edificanti con gente di ogni dove. Soprattutto, vi si trova questo motto personale, lanciato come esclamazione assordante: «You only have one life: live it!», hai una sola vita, vivila!
È un grido più forte di ogni male, di ogni destino infame, più forte della stessa morte. È la conferma che una vita non si misura in anni, ma in densità. Non è indispensabile avere il secchio della Montalcini, capiente più di cent'anni, per lasciare un'impronta sul mondo. Ne basta uno minuscolo, purchè senza vuoti, riempito bene: di pensiero, di sogni, e dell'inguaribile voglia di vivere. Anche Alice, come la Montalcini, certamente ora riposa nel paradiso delle indimenticabili, grandi donne.

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