Pronta. Perché ne era appena uscito un'altra persona, un 40enne, colpito da infarto. Mi hanno operato subito, dopo che i test dedicati avevano confermato che avevo ragione.L'Infarto: era arrivato. Appena arrivato. E io ero arrivato. Appena in tempo. Mentre la sonda risaliva l'arteria femorale destra, sul monitor ho visto, intuito il mio cuore trafitto. La coronaria sinistra chiusa. Riaperta. Ho visto il mio ventricolo sinistro, contrarsi. Ho sentito dolore. Un dolore non più muto,
ma forte, violento. Come mai avevo provato. Un dolore senza un luogo, un punto specifico e definito. L'ho sentito defluire, insieme al sangue che attraversava di nuovo il mio cuore. Tutto finito, mi hanno detto. Tutto passato. Il peggio. Mi hanno detto, mentre mi portavano all'Unità di Terapia Intensiva Coronarica. Dove sono rimasto sette giorni. Un altro intervento per liberare e cautelare la coronaria. Tre stent. Quasi un simbolo di status, mi hanno scritto molti amici. Il marchio di un club. Tutto passato. Il peggio. Mi hanno detto. E continuano a dirmi, via via che le mie condizioni migliorano. Tutto passato. Ma il presente è diverso. Sette giorni con me stesso. Accanto a me solo i medici, gli infermieri, le infermiere. Mia moglie. Sette giorni a guardarmi dentro. Ad ascoltarmi. A entrare dentro il mio cuore. Che, per definizione, è un muscolo involontario. Funziona a prescindere dalla nostra volontà. Per vivere dovremmo vivere come se. Non ci fosse. Ma c'è. Lo so. Per giorni, attaccato a un contropulsatore, gli occhi fissi sul monitor che esplorava il mio cuore senza sosta, l'ho guardato. Cioè: mi sono guardato e ascoltato dentro.
Protetto dal mondo, che non doveva interferire con il rapporto fra me e il mio cuore. Fra me e me. Gli echi di quel che succede fuori mi sono arrivati, attraverso i giornali, una radiolina. Sgradevoli. Più sgradevoli di sempre. La nostra indifferenza nei confronti degli altri che abitano davanti a noi. Mi è parsa oscena. La pagheremo. E poi il rumore di fondo, con quell'immagine sempre in movimento, la stessa, lo stesso, che si agita, strepita, sempre lui, sempre fermo, nello stesso punto. E il rumore mediatico che lo amplifica. Insopportabile.L'Infarto mi ha cambiato. Mi ha fatto sentire solo e, al tempo stesso, meno solo. Perché in un mondo di relazioni disattente e multiple tutto sembra uguale, in-differente. Durante e dopo l'infarto ti guardi dentro e intorno. E senti. L'importanza dei tuoi. La moglie, i figli. Mio padre, le mie sorelle. I legami stretti. Ma anche la rete delle persone che contano. E non sono poche. L'infarto è un'occasione, se hai la fortuna di incontrarlo senza danni irreparabili. È un'occasione che ti è data. D'altronde, non può essere per caso. Che io lo senta, quando ancora non è arrivato. E che mi raggiunga a casa, e non in viaggio oppure lontano, come mi capita spesso e sempre più spesso. Che, di sabato, io trovi una sala operatoria preparata e una dottoressa, esperta pronta a operarmi. Come fossero lì, ad attendermi. Che tutto avvenga in una Unità terapeutica di eccellenza. Non può essere un caso. Per caso. L'infarto è un'occasione, se lo accogli senza fingere. Che nulla sia cambiato. Che tutto continuerà come prima. Se non ti fai prendere dal panico e dalla paura. Dalla paura della paura.
L'infarto è l'occasione per ri-cominciare. Se ne sei capace. Per guardarti dentro e intorno. Perché domani, certo, è un altro giorno. Ma anch'io, oggi, sono un altro. Diverso da prima. E non sarò più lo stesso. E' il motivo per cui ho scritto queste cose. Non me le sono tenute dentro, per pudore e con paura. Ho raccontato i fatti miei. Ho esibito me stesso. (Sfidando il fastidio di molti a cui, sicuramente, dei fatti miei non interessa molto). Ma l'ho fatto - anzitutto e soprattutto - per me. Per non dimenticare.Per impedirmi di ritornare. Indietro.
ma forte, violento. Come mai avevo provato. Un dolore senza un luogo, un punto specifico e definito. L'ho sentito defluire, insieme al sangue che attraversava di nuovo il mio cuore. Tutto finito, mi hanno detto. Tutto passato. Il peggio. Mi hanno detto, mentre mi portavano all'Unità di Terapia Intensiva Coronarica. Dove sono rimasto sette giorni. Un altro intervento per liberare e cautelare la coronaria. Tre stent. Quasi un simbolo di status, mi hanno scritto molti amici. Il marchio di un club. Tutto passato. Il peggio. Mi hanno detto. E continuano a dirmi, via via che le mie condizioni migliorano. Tutto passato. Ma il presente è diverso. Sette giorni con me stesso. Accanto a me solo i medici, gli infermieri, le infermiere. Mia moglie. Sette giorni a guardarmi dentro. Ad ascoltarmi. A entrare dentro il mio cuore. Che, per definizione, è un muscolo involontario. Funziona a prescindere dalla nostra volontà. Per vivere dovremmo vivere come se. Non ci fosse. Ma c'è. Lo so. Per giorni, attaccato a un contropulsatore, gli occhi fissi sul monitor che esplorava il mio cuore senza sosta, l'ho guardato. Cioè: mi sono guardato e ascoltato dentro.
Protetto dal mondo, che non doveva interferire con il rapporto fra me e il mio cuore. Fra me e me. Gli echi di quel che succede fuori mi sono arrivati, attraverso i giornali, una radiolina. Sgradevoli. Più sgradevoli di sempre. La nostra indifferenza nei confronti degli altri che abitano davanti a noi. Mi è parsa oscena. La pagheremo. E poi il rumore di fondo, con quell'immagine sempre in movimento, la stessa, lo stesso, che si agita, strepita, sempre lui, sempre fermo, nello stesso punto. E il rumore mediatico che lo amplifica. Insopportabile.L'Infarto mi ha cambiato. Mi ha fatto sentire solo e, al tempo stesso, meno solo. Perché in un mondo di relazioni disattente e multiple tutto sembra uguale, in-differente. Durante e dopo l'infarto ti guardi dentro e intorno. E senti. L'importanza dei tuoi. La moglie, i figli. Mio padre, le mie sorelle. I legami stretti. Ma anche la rete delle persone che contano. E non sono poche. L'infarto è un'occasione, se hai la fortuna di incontrarlo senza danni irreparabili. È un'occasione che ti è data. D'altronde, non può essere per caso. Che io lo senta, quando ancora non è arrivato. E che mi raggiunga a casa, e non in viaggio oppure lontano, come mi capita spesso e sempre più spesso. Che, di sabato, io trovi una sala operatoria preparata e una dottoressa, esperta pronta a operarmi. Come fossero lì, ad attendermi. Che tutto avvenga in una Unità terapeutica di eccellenza. Non può essere un caso. Per caso. L'infarto è un'occasione, se lo accogli senza fingere. Che nulla sia cambiato. Che tutto continuerà come prima. Se non ti fai prendere dal panico e dalla paura. Dalla paura della paura.
L'infarto è l'occasione per ri-cominciare. Se ne sei capace. Per guardarti dentro e intorno. Perché domani, certo, è un altro giorno. Ma anch'io, oggi, sono un altro. Diverso da prima. E non sarò più lo stesso. E' il motivo per cui ho scritto queste cose. Non me le sono tenute dentro, per pudore e con paura. Ho raccontato i fatti miei. Ho esibito me stesso. (Sfidando il fastidio di molti a cui, sicuramente, dei fatti miei non interessa molto). Ma l'ho fatto - anzitutto e soprattutto - per me. Per non dimenticare.Per impedirmi di ritornare. Indietro.
font:http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2011/04/19/news/quando_il_cuore_si_ferma-15139972/
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