Un'inchiesta di 5 giornalisti haitiani sulla gente dell'isola esclusa dalle decisioni sulla propria sorte. Il titolo è: "Goudou Goudou: le voci ignorate della ricostruzione", un film finanziato da Fondation de France e RFI con il supporto di Reporters sans Frontières. Un reportage sull'efficacia degli aiuti, al di là del positivo risultato mediatico che le organizzazioni internazionali hanno finora incassato.di EMANUELA STELLA
PORT AU PRINCE - A un anno dal terremoto che ha mietuto oltre 220mila vittime, in quello che già prima del sisma era il paese più povero dell'emisfero occidentale l'emergenza fa ancora parte della quotidianità. Povertà, disoccupazione, analfabetismo (ad Haiti sei persone su dieci non sanno leggere né scrivere), tempeste tropicali, ora anche il colera, che si aggiunge alle tensioni sociali post-elettorali. Insomma, tutto tiene in scacco una popolazione che ogni giorno già fatica a mettere insieme il pranzo con la cena. Alla gente di Haiti (che si sente tagliata fuori dalla possibilità concreta di intervenire sulla propria sorte) dà voce "Goudou Goudou: le voci ignorate della ricostruzione", un web documentary indipendente e non profit realizzato da Benoit Cassegrain e Giordano Cossu, finanziato da Fondation de France e RFI con il supporto di Reporters sans Frontières 1, che sarà diffuso il 12 gennaio - anniversario del cataclisma - da RFI. Insomma, un reportage che si pone il problema di verificare l'efficacia di quanto è stato fatto fin qui, al di là del grande positivo risultato mediatico che le numerose organizzazioni umanitarie internazionali hanno incassato.
Cinque cronisti fra la gente. "Goudou Goudou" è il termine onomatopeico che richiama il boato del terremoto, e che ad Haiti è diventato sinonimo di disastro: il tempo ora si conta da prima o dopo del "goudou goudou". E la realtà del dopo-terremoto scaturisce in modo tangibile dal racconto delle popolazioni colpite, grazie al lavoro di cinque giornalisti radiofonici locali (la radio è in pratica l'unico mezzo di comunicazione, e nelle tendopoli tutti vivono attaccati a una radiolina). Ralph, Mc Haendel, Orfa, Eloge, Roberson visitano ogni giorno i ripari di fortuna in cui si accalcano centinaia di migliaia di persone, e le testimonianze da loro raccolte sono state suddivise da Cassegrain e Cossu in cinque grandi problematiche: la vita quotidiana nelle tendopoli, l'incognita della ricostruzione, la sanità e il colera, l'elaborazione del disastro per mezzo del teatro e dei graffiti che si moltiplicano sui muri rimasti in piedi, l'impatto delle Ong.
Il rapporto con le Ong: un punto dolente. Proprio il rapporto con le istituzioni umanitarie e i volontari accorsi a migliaia sull'isola è uno dei "punti dolenti" sollevati dalla gente di Haiti. "Il processo di aiuti umanitari viene largamente deciso all'estero, senza una consultazione dei beneficiari ultimi dei vari programmi, le voci ignorate di cui parliamo nel nostro documentario - sottolinea Giordano Cossu, coautore del web documentary. - Quello di Haiti è stato un dramma enorme, che ha attratto contributi molto elevati. I fondi governativi, quelli assegnati dagli stati, i famosi 5 miliardi di dollari di cui si parla, passano attraverso una commissione presieduta da Bill Clinton e dal premier haitiano Jean-Max Bellerive, che ha tempi lunghissimi di assegnazione: meno della metà dei fondi disponibili sono stati assegnati, e quelli tradotti in progetti, talvolta prescindono dall'efficacia a lungo termine che dovrebbe ispirarli.
Chi aiuta non ascolta chi ha bisogno. Tra le Ong che hanno raccolto fondi da donatori privati, alcune decidono autonomamente come allocarli e poi le ridistribuiscono a piccole organizzazioni internazionali che sono sul campo che non hanno fondi propri. Piccole e medie ong dipendono da queste istituzioni, come dei 'clientì cui si vendono i progetti, e questo può far perdere di vista il fatto che l'obiettivo finale di chi coopera deve essere unicamente il destinatario degli aiuti". "Le ong internazionali - prosegue Cossu - dovrebbero fare riferimento alle Ong locali, per far sì che l'intervento si concretizzi a lungo termine e continui a produrre benefici anche dopo la partenza degli operatori umanitari. Gli aiuti vanno destinati allo sviluppo, garantendo un passaggio di competenze del progetto agli haitiani, a tutti i livelli. Invece la percezione della gente è che i funzionari delle organizzazioni internazionali si tengano un sacco di soldi per il proprio funzionamento: l'affitto di una macchina, per esempio, costa 150 dollari al giorno, e se ne importano continuamente dall'America".
Una barriera fra la gente e i cooperanti. E' quanto viene percepito dalla gente, stando al reportage di Cassegrain e Cossu, una sorta di "barriera" che la separa dai cooperanti, come capita, per esempio, nel caso di una persona che lascia un impiego più qualificato per andare a fare l'autista, lavoro meglio pagato che al momento dà più soldi ma non offre prospettive future. "Il meccanismo che configura tra popolazione e organizzazioni è dunque quello dei 'committenti' ai quali si vogliono 'vendere' dei progetti - prosegue Cossu: - un volontario ci ha detto che la sua organizzazione non aveva intenzione di mettere in atto progetti cash for work, quelli per cui si assegnano lavoretti a giornata, talvolta superflui, per assicurare la sopravvivenza, ma il committente riteneva che in quel momento il cash for work fosse l'arma vincente, e la Ong si è dovuta adeguare".
Il salario giornaliero. Chi lavora nel cash for work viene pagato 200-300 gourde al giorno, 4-6 euro, che bastano per la sopravvivenza minima. "A confronto del manovale che sta 14 ore al giorno a spaccare col martello, per liberare le città dagli edifici pericolanti, il cash for work crea una sorta di svilimento del lavoro. Il punto è il coinvolgimento delle popolazioni nell'opera di ricostruzione, che in generale viene trascurato". I volontari sono animati dal sincero desiderio di aiutare, molti di loro mettono a disposizione interi mesi di vita: ma il problema, secondo Cossu, sorge a livello di gestione delle Ong, che vanno spinte a creare modelli di sviluppo sostenibile. "In ogni tendopoli c'è un comitato autogestito - racconta - e tutti denunciano di non poter far sentire la propria voce. Arriva il funzionario della Ong e dice: oggi si fa la distribuzione di kit medici o alimentari, piuttosto che di acqua, ma non c'è coinvolgimento nel progetto, che invece è fondamentale, altrimenti tutto è calato dall'alto e fine a se stesso.
I report accattivanti. Senza contare che le ong producono report sul proprio lavoro, li confezionano in modo accattivante e li spediscono direttamente agli organi di stampa, mentre il budget di comunicazione potrebbe essere destinato più utilmente a finanziare un 'revisore dei conti', un audit indipendente e qualificato che valuti il loro operato". "Un altro esempio: le Ong non sono le sole a gestire i campi, molti infatti sono autogestiti. Esiste un'associazione che gestisce 50 campi per 50mila persone, e che si è rivolta a grosse Ong e ad altri possibili finanziatori per un sostegno, ma le organizzazioni umanitarie internazionali sono sempre privilegiate". Quello della "exit strategy" è un altro dei problemi da affrontare e risolvere: i progetti devono avere un inizio, una fine e poi andare avanti da soli, per scuotere istituzioni in larga parte assenti, spingendole a prendere in gestione determinate attività, eppure questo non accade. "Certo, il colera è un'emergenza, ma bisogna cominciare a pensare al dopo: la situazione di assistenza prolungata finisce per produrre uno stato diffuso di passività".
Le ragioni del documentario. Queste considerazioni hanno spinto Cassegrain e Cossu a girare un documentario "dalla parte degli haitiani", che si colloca in una più ampia iniziativa di sostegno al giornalismo haitiano, con l'obiettivo di incoraggiare una prospettiva locale rispetto all'emergenza umanitaria, illustrata nel blog multimediale Solidar'IT in Haiti 2 fondato da Giordano Cossu. Il web documentary, che potrà essere aggiornato con i contributi locali, sarà disponibile in francese da domani sul sito di RFI.
Cinque cronisti fra la gente. "Goudou Goudou" è il termine onomatopeico che richiama il boato del terremoto, e che ad Haiti è diventato sinonimo di disastro: il tempo ora si conta da prima o dopo del "goudou goudou". E la realtà del dopo-terremoto scaturisce in modo tangibile dal racconto delle popolazioni colpite, grazie al lavoro di cinque giornalisti radiofonici locali (la radio è in pratica l'unico mezzo di comunicazione, e nelle tendopoli tutti vivono attaccati a una radiolina). Ralph, Mc Haendel, Orfa, Eloge, Roberson visitano ogni giorno i ripari di fortuna in cui si accalcano centinaia di migliaia di persone, e le testimonianze da loro raccolte sono state suddivise da Cassegrain e Cossu in cinque grandi problematiche: la vita quotidiana nelle tendopoli, l'incognita della ricostruzione, la sanità e il colera, l'elaborazione del disastro per mezzo del teatro e dei graffiti che si moltiplicano sui muri rimasti in piedi, l'impatto delle Ong.
Il rapporto con le Ong: un punto dolente. Proprio il rapporto con le istituzioni umanitarie e i volontari accorsi a migliaia sull'isola è uno dei "punti dolenti" sollevati dalla gente di Haiti. "Il processo di aiuti umanitari viene largamente deciso all'estero, senza una consultazione dei beneficiari ultimi dei vari programmi, le voci ignorate di cui parliamo nel nostro documentario - sottolinea Giordano Cossu, coautore del web documentary. - Quello di Haiti è stato un dramma enorme, che ha attratto contributi molto elevati. I fondi governativi, quelli assegnati dagli stati, i famosi 5 miliardi di dollari di cui si parla, passano attraverso una commissione presieduta da Bill Clinton e dal premier haitiano Jean-Max Bellerive, che ha tempi lunghissimi di assegnazione: meno della metà dei fondi disponibili sono stati assegnati, e quelli tradotti in progetti, talvolta prescindono dall'efficacia a lungo termine che dovrebbe ispirarli.
Chi aiuta non ascolta chi ha bisogno. Tra le Ong che hanno raccolto fondi da donatori privati, alcune decidono autonomamente come allocarli e poi le ridistribuiscono a piccole organizzazioni internazionali che sono sul campo che non hanno fondi propri. Piccole e medie ong dipendono da queste istituzioni, come dei 'clientì cui si vendono i progetti, e questo può far perdere di vista il fatto che l'obiettivo finale di chi coopera deve essere unicamente il destinatario degli aiuti". "Le ong internazionali - prosegue Cossu - dovrebbero fare riferimento alle Ong locali, per far sì che l'intervento si concretizzi a lungo termine e continui a produrre benefici anche dopo la partenza degli operatori umanitari. Gli aiuti vanno destinati allo sviluppo, garantendo un passaggio di competenze del progetto agli haitiani, a tutti i livelli. Invece la percezione della gente è che i funzionari delle organizzazioni internazionali si tengano un sacco di soldi per il proprio funzionamento: l'affitto di una macchina, per esempio, costa 150 dollari al giorno, e se ne importano continuamente dall'America".
Una barriera fra la gente e i cooperanti. E' quanto viene percepito dalla gente, stando al reportage di Cassegrain e Cossu, una sorta di "barriera" che la separa dai cooperanti, come capita, per esempio, nel caso di una persona che lascia un impiego più qualificato per andare a fare l'autista, lavoro meglio pagato che al momento dà più soldi ma non offre prospettive future. "Il meccanismo che configura tra popolazione e organizzazioni è dunque quello dei 'committenti' ai quali si vogliono 'vendere' dei progetti - prosegue Cossu: - un volontario ci ha detto che la sua organizzazione non aveva intenzione di mettere in atto progetti cash for work, quelli per cui si assegnano lavoretti a giornata, talvolta superflui, per assicurare la sopravvivenza, ma il committente riteneva che in quel momento il cash for work fosse l'arma vincente, e la Ong si è dovuta adeguare".
Il salario giornaliero. Chi lavora nel cash for work viene pagato 200-300 gourde al giorno, 4-6 euro, che bastano per la sopravvivenza minima. "A confronto del manovale che sta 14 ore al giorno a spaccare col martello, per liberare le città dagli edifici pericolanti, il cash for work crea una sorta di svilimento del lavoro. Il punto è il coinvolgimento delle popolazioni nell'opera di ricostruzione, che in generale viene trascurato". I volontari sono animati dal sincero desiderio di aiutare, molti di loro mettono a disposizione interi mesi di vita: ma il problema, secondo Cossu, sorge a livello di gestione delle Ong, che vanno spinte a creare modelli di sviluppo sostenibile. "In ogni tendopoli c'è un comitato autogestito - racconta - e tutti denunciano di non poter far sentire la propria voce. Arriva il funzionario della Ong e dice: oggi si fa la distribuzione di kit medici o alimentari, piuttosto che di acqua, ma non c'è coinvolgimento nel progetto, che invece è fondamentale, altrimenti tutto è calato dall'alto e fine a se stesso.
I report accattivanti. Senza contare che le ong producono report sul proprio lavoro, li confezionano in modo accattivante e li spediscono direttamente agli organi di stampa, mentre il budget di comunicazione potrebbe essere destinato più utilmente a finanziare un 'revisore dei conti', un audit indipendente e qualificato che valuti il loro operato". "Un altro esempio: le Ong non sono le sole a gestire i campi, molti infatti sono autogestiti. Esiste un'associazione che gestisce 50 campi per 50mila persone, e che si è rivolta a grosse Ong e ad altri possibili finanziatori per un sostegno, ma le organizzazioni umanitarie internazionali sono sempre privilegiate". Quello della "exit strategy" è un altro dei problemi da affrontare e risolvere: i progetti devono avere un inizio, una fine e poi andare avanti da soli, per scuotere istituzioni in larga parte assenti, spingendole a prendere in gestione determinate attività, eppure questo non accade. "Certo, il colera è un'emergenza, ma bisogna cominciare a pensare al dopo: la situazione di assistenza prolungata finisce per produrre uno stato diffuso di passività".
Le ragioni del documentario. Queste considerazioni hanno spinto Cassegrain e Cossu a girare un documentario "dalla parte degli haitiani", che si colloca in una più ampia iniziativa di sostegno al giornalismo haitiano, con l'obiettivo di incoraggiare una prospettiva locale rispetto all'emergenza umanitaria, illustrata nel blog multimediale Solidar'IT in Haiti 2 fondato da Giordano Cossu. Il web documentary, che potrà essere aggiornato con i contributi locali, sarà disponibile in francese da domani sul sito di RFI.
font:http://www.repubblica.it/solidarieta/cooperazione/2011/01/11/news/haiti_ora_la_gente_vuole_camminare_con_le_proprie_gambe-11086797/
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