Il catastrofico rapporto con la natura e il disorientamento nel mondo giovanile La crisi? E' non avere speranza del futuro

Pietro Barcellona
L'indecente spettacolo della furibonda rissa politica, esplosa nel centro-destra e propagatasi a pioggia in tutti i giornali e in tutti i discorsi politici come unico tema del giorno, oltre agli effetti devastanti sulla fiducia nelle istituzioni che si possono constatare giornalmente, ha anche l'effetto più grave di occultare e addirittura rendere impossibile una seria riflessione sulle condizioni attuali del nostro Paese e dell'intero Occidente.
Come si fa a non restare stupefatti di fronte allo spropositato spazio dedicato allo scontro tra Berlusconi e Fini, o alle divagazioni più nobili su Cavour e il Risorgimento italiano, rispetto a quello riservato ai fatti che giornalmente ci dovrebbero costringere a ragionare sul collasso epocale della nostra forma di civiltà e sui caratteri di una crisi che investe il senso stesso del produrre e del consumare.
Le alterazioni climatiche, che è difficile non ricondurre al nostro sistema produttivo, hanno provocato incendi senza precedenti nelle regioni della Russia, del Portogallo, della Spagna e della stessa America. In Russia temperature che non hanno riscontro negli ultimi mille anni hanno messo in drammatica evidenza l'incapacità di questo grande Paese di fronteggiare un'emergenza simile, pur ricorrendo all'esercito e agli aiuti di altri paesi. Una potenza mondiale messa in ginocchio dalla ribellione della natura all'uso sconsiderato che l'uomo ne fa ogni giorno.
Le alluvioni nel centro-Europa hanno provocato disastri e morte dove prima l'estate era una gioiosa occasione per navigare con i famosi battelli turistici sulle acque del Reno o del Danubio. Dal Pakistan sono arrivate immagini terrificanti degli enormi danni materiali ed umani provocati da un'alluvione di enormi dimensioni. Nel frattempo le macchie di petrolio che anneriscono il mare e le spiagge, dall'America alla Cina fino all'India, ci ricordano che stiamo strappando alle viscere della terra l'ultima energia che è stata depositata nel corso di miliardi di anni. Questo triste elenco potrebbe essere continuato all'infinito, ricordando altre catastrofi dei mesi scorsi e leggendo le previsioni dei metereologi sulla potenza inaudita degli uragani che si prevede colpiranno l'America nei prossimi mesi.
C'è dunque un'emergenza della natura, dei limiti di tenuta del nostro pianeta, che occorrerebbe mettere al centro di ogni riflessione sui problemi della crescita economica e dello sviluppo. Io credo che il sommarsi in rapida successione di eventi così catastrofici non possa non mettere in discussione le logiche profonde del nostro modello di sviluppo. Come si fa a non porre il problema di un profondo rivolgimento dei modi di produzione e di consumo come se fosse possibile immaginare una produzione illimitata di merci secondo l'attuale standard di vita delle società più ricche? Non è vero che continuare sulla strada che ci sta portando alle soglie del disastro ambientale sia giustificato dal problema che senza la crescita non ci può essere lavoro né occupazione. Non solo perché quel tanto di crescita che si riesce a realizzare avviene in gran parte aggiungendo al disastro ambientale anche la macelleria sociale, come dimostra il nomadismo delle grandi imprese verso i paesi più poveri dove il costo del lavoro è nettamente più basso che nei paesi ricchi. Ma soprattutto perché, continuando su questa strada, non è affatto vero che si riuscirà ad allargare l'area del lavoro salariato, giacché senza una redistribuzione delle risorse e senza una riforma del modello produttivo, la crescita che si può realizzare nei paesi e nelle aree più povere corrisponde al degrado e alla desertificazione delle aree dei paesi più ricchi che vengono abbandonate a causa degli elevati costi di produzione.
Si dice comunemente che l'Europa si è tropicalizzata e che il dominio dell'anticiclone africano ha completamente modificato le condizioni climatiche del Mediterraneo. Attraversando le aree del Mezzogiorno di Italia non è difficile constatare come il deserto sia cresciuto ben oltre i confini del Sahara. La domanda su cosa produrre, per chi e dove, deve essere posta alla base di un nuovo modello di consumi e di una nuova cultura economica.
La questione del rapporto con la natura non è però soltanto un problema che riguarda il modello produttivo. L'attuale sistema di continua delocalizzazione delle imprese e delle attività industriali più rilevanti, come nel caso della Fiat, ha completamente messo fuori campo il significato sociale del lavoro. A parte l'affermazione solenne della Costituzione che fonda la Repubblica sul lavoro, è infatti facile osservare che, fino alla metà del secolo scorso, il lavoro rappresentava la base materiale del legame sociale e il più rilevante simbolo dell'identità. Il lavoro, infatti, appariva tangibilmente come il contributo che ciascun cittadino dava al benessere della nazione, e le attività produttive, con i loro marchi diffusi nel mondo, erano il simbolo dell'operosità dell'intero Paese. La fine del lavoro come figura unificante della maggioranza dei cittadini sta determinando una delle più potenti crisi di identità che il nostro Paese e il mondo occidentale hanno conosciuto nella storia della modernità. Sicuramente il passaggio dalla società agricola alla società industriale è stato meno traumatico della transizione verso il futuro che stiamo vivendo oggi.
Si tratta dunque assai più di una semplice crisi di passaggio: siamo di fronte ad un mutamento epocale della visione del rapporto dell'uomo con la natura e dell'uomo con il proprio lavoro. Questo mutamento epocale non risulta in nessun modo percepito dalle classi dirigenti che nel linguaggio e nelle pratiche continuano a comportarsi come se fossimo fermi alle dispute del secolo scorso.
Il punto critico in cui si manifesta in modo clamoroso questo compimento del progetto moderno e della sua incapacità di produrre speranze del futuro, è sicuramente rappresentato da ciò che accade nel mondo giovanile. Durante il mese di luglio si è verificato a Duisburg un evento di enorme portata e significato, e sono rimasto esterrefatto nel constatare che i diversi commentatori finivano soltanto col fare l'apologia di ciò che a me è sembrato il segno di una grande disperazione giovanile.
Oltre un milione di ragazzi e ragazze hanno partecipato a una Love- Parade, nel corso della quale, per un improvviso attacco di panico collettivo, si è verificata una fuga con conseguente massacro di venti giovani vite. In un commento mi è capitato di leggere che, nonostante questa tragedia, la manifestazione di questa massa rappresentava una forma possibile di senso collettivo, una sorta di processione pagana in cerca del battito dell'universo. La techno music, che assordava fino all'annichilimento del senso di sé i partecipanti a questa sarabanda di suoni e di luci, è stata letta, anzi, come un tam tam che, dalle viscere del nostro continente, lascia intravedere un altro mondo, dove, attraverso la comunicazione sonora, diventa possibile sconfiggere il senso opprimente della solitudine individuale.
I servizi giornalistici sulla manifestazione di Duisburg sono stati spesso accompagnati da interviste ai giovani tra i quattordici e i vent'anni che raccontavano di essere degli assidui frequentatori di questi incontri e che in essi si celebrava una specie di continua iniziazione ad un mondo senza regole e senza limiti dove era possibile fare sesso continuo e drogarsi e ubriacarsi a volontà.
Vorrei che questo avvenimento e il commento che se ne è fatto sulla grande stampa e sulla televisione fosse oggetto di una seria riflessione degli adulti sul destino dei propri figli e delle nuove generazioni. Un fenomeno di massa di queste dimensioni a me pare assai più di una regressione nel mondo infantile del piacere senza limiti; mi sembra il segno di una psicosi collettiva dove ciò che domina è l'assoluta assenza di ogni forma individuale o sociale di rapporto con la realtà. Inviterei tutti, anche gli abitanti della nostra provincia che sembra così distante da questi luoghi, a rendersi conto che siamo di fronte ad una trasformazione radicale di ciò che ha costituito storicamente il nucleo della identità umana: il senso di sé.
La manifestazione di Duisburg non è paragonabile a tutte le altre precedenti, come ad esempio quella di Woodstock, in cui c'era la consapevolezza di partecipare a una festa liberatoria ma anche al mito fondativo di nuove forme di protagonismo. A Duisburg non c'erano leader, non c'erano cantanti, ma solo decine e decine di carri attrezzati per produrre "cassoni rumorosi" a contatto dei quali ciascuno dei partecipanti subiva uno stordimento totale.
Sì, certo, questo imponente fenomeno di massa rappresenta un tam tam che manda al mondo degli adulti i segni di una grande crisi di identità e di senso che dovrebbe spingerci a ragionare anche sul rapporto fra il mondo giovanile e le nuove forme di comunicazione mediatica.
Il punto su cui però voglio richiamare l'attenzione, nella speranza di riuscire ad aprire un dibattito sul nostro futuro, è che esiste un nesso profondo tra la crisi del rapporto con la natura, il collasso del modello produttivo industriale e il disorientamento che si diffonde nel corpo sociale, specialmente nelle parti più delicate come il mondo dei giovani. Se non riusciamo a pensare al futuro in termini nuovi, difficilmente anche le questioni più congiunturali riusciranno ad essere considerate con la giusta prospettiva.

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2 commenti:

  1. non c'è cosa peggiore per un giovane, che la mancanza di speranza di un futuro migliore e di un lavoro dignitoso. Questo significa che siamo alla vigilia di una rivoluzione civile, senza sapere dove si andrà a parare.
    Governanti che non capiscono il bisogno e il significato di tutto questo.
    Le famiglie esistenti sono distrutti da questi problemi. Le famiglie future nemmeno si immaginaro, per causa di questi problemi. Il consumismo è morto, a causa della mancanza di reddito certo. L'economia è al collasso per mancanza di garanzie bancarie.
    Siamo alla frutta e i politici continuano imperterriti a non vedere, presi dalle loro beche personali, che saranno anch'esse travolte dagli eventi.
    La rivoluzione e peggio dello tsunami.
    Angelo Baglio

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