SPERANZA E DISPERAZIONE RACCOLTI IN UNA LETTERA-DIARIO

REPORTAGE DAL QUARTO MONDO
È una testimonianza diretta di cosa significa vivere con gli esclusi delle periferie del mondo. Soprattutto qui la condivisione e l’amicizia sincera diventano segni di speranza.

Fratel Carlo, francescano di origine siciliana, è da poco rientrato in Italia dopo un intenso periodo trascorso in Bolivia. Ha accettato, pur con qualche reticenza personale, di consegnare alcune riflessioni sulla sua esperienza missionaria.
Il motivo che “Mi da tanta gioia”, precisa, “è sapere che qualcuno penserà a quella gente tanto lontana e tanto fenomeno televisivo, ma in realtà così poco presente nella nostra vita di ogni giorno”. Cosa significa per lei essere cristiano, essere francescano o dovrei dire missionario?
Penso spesso di finire i miei giorni in terra di missione. Tutto si accende nel mio cuore quando penso di prestare a un povero le mie mani inutili e il mio cuore desideroso di darsi. Mi torna in mente come un progetto vicino che “i poveri li avrete sempre con voi”…è come una promessa, quella di darmi una vita da vivere con in poveri, i poveri di cibo, di amore, di speranza, di fede. Quanti poveri mascherati da ricchi ho conosciuto a Santa Cruz! Ma veniamo al suo racconto: una sorta di lettera-diario che dice di aver scritto “come spinto da una febbre”.

A contatto con la miseria
Siamo tornati alla nostra bella Italia, stanchi, confusi per lo shock del fuso orario, con molte più domande che risposte. Abbiamo cominciato da Santa Cruz ospiti dei frati minori che ci onorano della loro amicizia e della loro ospitalità da tre anni quando siamo a Santa Cruz. Santa Cruz è una città terribile! Un traffico metropolitano dove si può vedere di tutto: dai taxi senza sportelli e senza vetri ai camioncini che portano persone perfino nel cofano e sulla capotta, dai calessi trainati da muli in coma ai ciclotaxi con la ruota posteriore completamente sgonfia e il pappagallo sulla spalla a mo’ di clacson. La sporcizia regna sovrana e corsi d'acqua (si fa per dire) dall'odore indescrivibile attraversano quieti la città frenetica. Uno di questi corsi d'acqua è arricchito da un affluente molto particolare, con i liquami di una buona parte del centro della città. Fiume e liquami spariscono sotto terra e si inoltrano in una zona "franca" dove vivono i giovani del villaggio "nero": centinaia di ragazzi e ragazze, per la maggior parte tossici e ammalati di Aids che nel buio delle fogne aspettano qualcosa di indefinito tra la vita e la morte, la speranza e la disperazione. Ma è pur sempre un attesa, e quindi gravida di sogno; quando è sera si fa un piccolo fuoco (non certo per il freddo, ma per "vedersi"), si rolla qualche canna, cominciano a venir fuori le "piste di cocaina" o se proprio va male ci sono le foglie secche di coca, per allontanare il fantasma della fame, della sete, della stanchezza, della paura che sia l'ultima notte! Pochi minuti succhiando l'aspro umore delle foglie sembra che tutto sia più facile e sopportabile. Anche il rapporto con la “droga” è diverso qui. Non ha senso scandalizzarsi né ovviamente giustificare. Io stesso, qualche giorno dopo, a El Alto de La Paz (4062 m. sul livello del mare), ho masticato foglie di coca per respirare ad alta quota, così anche per percorere i sette chilometri da nord a sud nell'Isla del Sol al centro del Titicaca....oltre i 4000 sul livello del mare. Ma a Santa Cruz è lo shock di un mondo che vive senza di te a metterti in bocca le foglie secche; il senso di impotenza e la consapevolezza che tu non incidi neanche minimamente su quello che accade fuori di li, nel mercato dove a pochi passi di là si possono comprare le farfalle catturate in Amazzonia o dei video porno direttamente forniti dai "pirati" peruviani; dove si consumano i traffici di bambini accanto alla pubblicità del nuovo ipermercato americano; dai comizi politici alle visite pastorali dei tre vescovi della città. Molti di questi giovani non esistono, non sono cioè "anagrafati" da nessuna parte, sono stati generati nelle notti buie delle donne andine, sui monti dove i pastori possono fare quello che vogliono delle donne che non oppongono resistenza; vengono poi "consegnati" al frastuono delle grandi città dove imparano a fare i sciuscià, i lustrascarpe, per venti centesimi di boliviano a paio di scarpe (60 delle vecchie lire) o a concedere i loro favori agli occidentali o agli uomini del nord che calano come avvoltoi in queste terre dominate dalla sofferenza e dalla fame, offrendo a volte anche solo un pane o un po’ di frutta in cambio delle loro “prestazioni” e non concedendo sconti sulle loro richieste. La città è piena di mendicanti, ma com'è diverso dai nostri zingari che ci coprono di improperi! Là il povero ha una dignità che gli viene dall'appartenere alla maggioranza della popolazione. Sono magri, e non hanno altri cartelli che i loro occhi pieni di fame, non chiedono niente per i bambini che sono a casa, forse non c'è nemmeno una casa, tutto è là, qualcosa per loro, un po’ di latte per il loro petto cieco. Non maledicono, non insistono....ringraziano e chiedono preghiere perchè Dio conceda loro di non disperare mai, di non dubitare mai del suo amore. Sui gradini della cattedrale trovo un "lebbroso" guarito, è così strano.. mi chiedo come sia stato possibile. Gli diamo una caramella portata dalla nostra Italia per i bambini. Lui ha forse trenta anni, ed è scosso da una vibrazione senza sosta in tutto il corpo. Non riusciamo a dire altro, ma lui parla, poche parole, "hermano, gracias, Dios la bendiga" ....entriamo in una Cattedrale gremita di popolo. All'uscita lui è ancora là, riverso sugli scalini come se fosse stato scagliato dall'alto. Non è riuscito a togliere la carta della caramella e ce la porge, la svolgiamo, gli diamo in mano la caramella, ma prima di mangiarla prende la mano di frate Antonio e la bacia e la bagna di lacrime. Poi comincia lentamente, lentamente a mangiare la sua caramelita a la aranja. Sono arrivati centinaia di bambini con la speranza che ci sia qualcosa per loro, ci circondano, ci chiamano papà (non padre!), vogliono un santino di padre Pio che noi non abbiamo. Una di loro, avrà forse sei anni, pettina l'amico lebbroso con l'astuccio di una vecchia penna e gli pulisce la bocca con suo vestitino corto e liso. Poi mi dice: "padrecito, una bendicion por el". Una benedizione, non un dollaro o un pane. Cercando di tenere ferma la testa sempre più scossa dai tremiti (credo per l'emozione), accoglie il segno che gli traccio sulla fronte come un sorso d'acqua nel deserto. Sento le mie mani sporche sulla sua fronte grande. Poi tutti i bambini si mettono attorno e chinano il capo. E' la piccola che alla fine con le sue manine traccia il segno di croce sulla mia fronte calda di emozione, poi salta sulle braccia di frate Antonio e gli chiede se domani saremo alla messa del mattino e lo bacia con trasporto. La sera raccontiamo ai frati che ci ospitano. Non hanno parole. Loro vivono qui da tanto e conoscono gli abitanti e la realtà della strada; padre A. ne raccoglie centinaia ogni giorno, un po’ di cibo, un po’ di scuola e un po’ di "dottrina". poi, la sera, esce a questuare per loro. Ci sono cassettine di padre A. anche all'aeroporto, alla stazione degli autobus, nelle banche, al mercato....Non c'è bambino o mendicante che non butta dentro qualche centesimo, come un deposito in banca, la banca dei miserabili...domani forse servirà a lui. Così comincia la nostra missione, ogni giorno tutto uguale, cambia la zona, cambiano le facce dei bambini, la città si trasforma in campagna e i Crusegni in campesinos, ma è la stessa missione di ogni giorno: un bimbo in braccio, niente promesse, solo condividere il dolore di oggi. La sensazione è quella che tutto sia fuori luogo, che quello che vediamo non può esistere. Visitiamo molti villaggi. A Don ChiChi facciamo una festa per i bambini. Ne arrivano trecento e noi avevamo pensato a una ventina. Facciamo il rosario passeggiando tra le baracche di legno e poi cominciamo a distribuire il poco che abbiamo: caramelle, fermaglini, trenini di plastica, qualche panino, un infuso di acqua di pozzo e erba che chiamano rinfresco......tutti hanno qualcosa e fanno gli scambi. Poi cominciano a cantare le loro canzoni che invitano a fermarsi a casa loro per mangiare con loro il pane e il vino, riposare, parlare un po’ di noi, perchè questa è la felicità, essere amici e non tradirsi mai. Poi lenta una vecchia nenia Quechua che un amico mi traduce: racconta di una bimba che lasciò la casa per cercare l'acqua per la mamma ammalata e trovò un pozzo dove l'angelo regalava acqua benedetta per tutte le mamme, ma l'angelo era stanco e qualcuno doveva prendere il suo posto. La bimba rimase per sempre e chi cerca l'acqua del pozzo santo chieda di Punataà, la bimba Punataà. Punataà era mia figlia e io ora canto a voi perchè la sua acqua mi ha guarito e l'angelo ha scavato nuovi pozzi dove solo i bimbi quechuas possono andare. Quando il vostro bimbo sparirà, chiedete a Punataà, forse c'è un nuovo pozzo nel vostro campo e la vostra sete finirà.
Credere in un Dio amore
La “Bolivia” di fratel Carlo è tristemente simile a tanti paesi del terzo o quarto mondo, ma si possono avvertire anche alcune note di gioia: <>
Conclude con un pensiero molto bello fratel Carlo che dimostra, tra l’altro, una notevole consapevolezza di sè: <>>

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1 commento:

  1. Una testimonianza veramente toccante e incisiva sulle riflessioni proprie. Toccare con mano la vita è qualcosa che può segnare profondamente ma che, sicuramente, regala al mondo una speranza in più per sopravvivere in questa bolgia di assenteismo dei valori umani.

    Ringrazio voi del blog e Fra Carlo per questa testimonianza sincera e schietta, propria di chi testimonia Gesù veramente per le strade del pianeta.

    Un vecchio amico

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